Cronaca locale

Il barnum della Darsena follie ieri e movida oggi

Dai silos che trattavano la sabbia a moli con barca a vela Il porto cittadino è da sempre il cuore dei tipi più originali

Quando videro una vecchia Balilla galleggiare sull'acqua, tutti si chiesero che cosa mai ci facesse un'auto d'epoca, con le ruote immerse nella Darsena, al Ticinese. Eppure era così. E navigava. Allora aguzzarono la vista e strabuzzarono gli occhi. Videro che nell'abitacolo stavano seduti in quattro e li identificarono, per giunta. Uno era il Bruno. Il fabbro Scapaccin. E lo conoscevano tutti. Teneva bottega a un passo da lì. Sul Naviglio Pavese, accanto alla Briosca, che oggi è un pub, noto per gli aperitivi, accompagnati da succulenti stuzzichini, ahimè freddini anzichè no. Ma una volta era un'osteria. Al piano zero di uno stabile di ringhiera. Giallo Milano. Affacciato sul canale, al quale doveva l'insegna, derivata da una compagnia di navigazione.

Lo Scapaccin lavorava lì. E faceva il carpentiere con il vizietto delle invenzioni, tra un' ombra de vin e ôna martellada . Le pubblicità che brillavano in piazza Duomo, fino al '90, le aveva fatte lui. E sempre lui aveva messo insieme I pee vuncc , quattro buontemponi che la sera prendevano la porta della Briosca, entravano e cominciavano a strimpellare in dialetto. Come Nanni Svampa. E Gianni Magni. Finiva che tutto il locale cantava con loro. Un falegname. Un ghisa. Un tassista. E lui, il Bruno, che aveva spolverato quel nome - «I piedi sporchi» - dopo l'ultima trovata.

In una discarica aveva messo le mani su un enorme stivale di polistirolo. Era alto un metro e se l'era portato a casa. L'aveva ripulito. E conservato. A carnevale e ogni 2 giugno - che non era la festa della Repubblica, ma quella del Naviglio - il piedone veniva buttato in Darsena e cavalcato dai Pee vuncc . E la gente rideva. Assiepata là, sullo Scodellino - dove i conducenti di chiatte ancoravano i barconi per ristorarsi dai rigori dell'inverno con una minestra calda in locanda - e sui Bastioni, a vedere le gesta di quei cinque matti senza paura di bagnarsi. Erano gli anni d'oro del grande Real, gli anni di Happy days e di Ralph Malph, gli anni in motorino sempre in due, gli anni di che belli erano i film, gli anni dei Roy Rogers come jeans. E in Darsena accadevano cose strane.

Come quella vecchia Balilla, immersa fino ai fianchi, che aveva fatto il giro di tutti i giornali. E perfino la Fiat se n'era accorta, dando un premio a quei quattro mattacchioni dei «piedi sporchi» che si erano pure travestiti. Il Bruno da gondoliere e il Cesarino Lamberti da marajah. Improvvisato spot nel barnum di uno specchio d'acqua che di follie ne aveva viste assai.

Lamberti, il tassista, in Darsena ci era nato nel '26. E, quando si trasferì, fece pochi metri. La madre era cuoca nel ristorante sotto casa. In Alzaia. Al 6. Cucinava risotto, patate, coniglio. E gatto. Già, gatto. Ma nessuno se la dava a intendere. E si leccavano i baffi. Eppure il trucco c'era. E si vedeva. Quello servito senza testa era il felino. E non trattavasi certo di salame.

Cesarino, a suo modo, ha fatto carriera. Quel tassì, anche in versione acquatica, lo ha portato a diventare uno degli organizzatori della festa dei Navigli. E, alla nascita delle emittenti private, ha lanciato tra le onde il suo messaggio in bottiglia. Radio Meneghina fu una delle prime, nel '76. E spesso si parlava in dialetto. Il Lamberti invitò tutti a gettare un fiore nel canale. Testimonianza d'amore per la città. Poi corresse il tiro. Perché un fiore solitario mai sarebbe arrivato a destinazione. E suggerì un cofanetto, legato a un'assicella in modo da galleggiare. Andò che i fiorai si riempirono le tasche di quattrini e da Trezzano partì una marea colorata di corolle che invasero la Darsena.

Quel porticciolo era lì dal 1603. È profondo un metro e mezzo. E l'aveva voluto don Pedro, che di cognome faceva Enriquez, di provenienza Acevedo y Toledo. Ed era conte di Fuentes. Arrivò a Milano a 75 anni. Era il 1600. Fiore all'occhiello di una carriera militare sfolgorante. Il re di Spagna, Filippo III, lo nominò Governatore e Capitano generale di Milano e fu il terrore dell'aristocrazia locale. In special modo di quella fetta di nobiltà legata alla Serenissima. Alto e autorevole, oltre che autoritario, aveva una testa piccola ma una voce stridula e femminile che faceva a pugni con il suo machismo innato. Capo di un manipolo di spie che gli spifferavano di tutto. Volle quel bacino per collegare Milano al lago Maggiore da un lato e al Ticino dall'altro, ma mai avrebbe immaginato che sarebbe diventato il cuore dei tipi più originali e fuorigiri di quella che ancora non era una metropoli.

La Darsena nacque su un vecchio laghetto, quello di Sant'Eustorgio, che nessuno ha mai capito esattamente dove fosse. Neppure cartografi illustri come il Baratteri, contemporaneo del Fuentes e autore di una topografia cittadina. Ma divenne strategica. Era la meta del marmo di Candoglia, destinato al Duomo, una volta strappato alle cave di Castelletto di Cuggiono. Arrivava a bordo di chiatte e barconi che trasportavano di tutto.

Durante gli anni bui del Novecento, sulle rive c'erano anche i silos. Filtravano sabbia. Quella che, durante la guerra, serviva a nascondere sacchi di riso pronti per la borsanera. Scaricarli toccava ai prigionieri russi. Gente rispettosa, stando ai si dice. Ma invisi ai milanesi, troppo convinti di quella diceria secondo cui mangiavano i bambini. Come tutti i comunisti veri. Forse per questo, la mamma del Cesarino cucinava i gatti proprio per loro. Tra l'ilarità generale.

I silos rimasero lì fino al '79. Al 31 marzo, pressappoco. Quando l'ultimo barcun solcò quelle acque. Poi furono abbattuti anche loro e sulla riva nord, a lato di via D'Annunzio, arrivò il mercatino di Sinigaglia. Storia di pulci. Cianfrusaglie. Soffitte svuotate e ricordi d'un tempo che fu. Pezzi di Milano in offerta. Cartoline e vecchie pentole. Rimasugli d'antichità. Scatoloni a bordo strada. Merce e mercé di cuori sensibili. E pieveloci che in settimana rubavano le bici e al sabato le rivendevano proprio lì. A Sinigaglia. Museo delle cere animato. Tra nuovi punkabbestia. Ubriaconi. Perditempo. Con gli occhi fissi al maxischermo che oggi proietta fotogrammi di ieri. E malati di nostalgia. Come il Cesarino, che tanti anni dopo tornò nella casa di ringhiera dove aveva abitato. In Alzaia. Al 6. E al posto dei «suoi» negozi ha trovato bistrot. Specialità, consumo. Musica. Febbre. E femmine. In cortile la voce di una modella, preoccupata da quello «sconosciuto», aveva dato l'allarme. A salvarlo è stata una donna. Era una bambina quando il Cesarino abitava lì. Figlia della vecchia portinaia. Ma lo ricordava ancora. Con una scimitarra in mano mentre bloccava il traffico. Su una Balilla. E vestito da emiro.

Quella di Sinigaglia o Senigallia è una lunga storia. Inizia ai primi dell'800 quando un gruppo di straccivendoli smerciava abiti usati e demodé a Porta Genova. La Fiera, che deriva il nome da due località - una nel Comasco e l'altra nelle Marche su bancarelle piene di vecchie cianfrusaglie - si è poi trasferita a Porta Ludovica, in via Calatafimi e lungo la Darsena.

Oggi si svolge tra via Paoli e via Barsanti e folcloristici robivecchi vendono pezzi di una Milano nascosta.

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