Cronaca locale

Belle arti da Budapest in sosta a Palazzo Reale

Il museo ungherese è in corso di ristrutturazione. A Milano un compendio da Raffaello a Schiele

Belle arti da Budapest in sosta a Palazzo Reale

Il nome è difficile da pronunciare, Szépmu vészeti Múzeum, ma il Museo di Belle Arti di Budapest è famoso per entrare nel cuore di chi lo visita. Aperto gli inizi del Novecento per legittimare, davanti ai «vecchi» Stati europei, l'identità della giovane Ungheria, grazie alla generosità di donazioni – su tutte: i seicento dipinti dei principi Esterházy, i nobili più noti del Paese – vanta una collezione davvero considerevole per qualità e quantità. Milano lo sa: lo scorso Natale tanti hanno ammirato a Palazzo Marino la celebre «Madonna Esterházy» di Raffaello, data in prestito dal museo. Da oggi la si potrà ammirare di nuovo, questa volta a Palazzo Reale: è uno dei pezzi che compongono la mostra «Da Raffaello a Schiele. Capolavori dal Museo di Belle Arti di Budapest» (fino al 7 febbraio, catalogo 24 Ore Cultura). E di capolavori ce ne sono ben 76: li ha salutati ieri a Milano Làszlò Baan, direttore generale del museo ungherese che, causa ampliamento e rinnovo degli spazi espositivi, rimarrà chiuso per ancora due anni.

Lo Szépmu vészeti Múzeum sta approfittando della situazione per far girare e conoscere all'estero il meglio della sua collezione grazie a mostre come questa. A Stefano Zuffi spetta la curatela del progetto, promosso da Palazzo Reale con Arthemisia e 24 Ore Cultura: compito non semplice perché in otto sale – quelle del piano terra non particolarmente ampie – è riuscito a servire al pubblico un distillato di storia dell'arte. È una mostra su cinque secoli di creatività artistica: dalla madonna raffaellesca e dai disegni di Leonardo (c'è uno Studio di testa per la battaglia di Anghiari) che dominano la prima sala, fino ai dipinti di Manet e l'acquarello di Schiele che chiudono la mostra. Molta l'arte italiana collezionata dai nobili magiari e poi confluita nelle collezioni del museo: la seconda sala è dedicata alla pittura della Serenissima, con la «Cena in Emmaus» di Tintoretto e i ritratti del Veronese e di Tiziano a confronto con quel genio solitario e umbratile che fu El Greco. La «Salomé» di Lukas Cranach con la sua seduzione composta accanto al «Ritratto di giovane» di Albert Dürer – siamo nella terza sala – è forse uno dei passaggi più belli dell'allestimento. Due le sale dedicate al barocco: davanti al ritratto di uomo barbuto di Rubens e alla «Scena di osteria» di Velàzquez si potrebbe rimanere per ore, per non parlare del disegno di Rembrandt che qui ritrae la moglie seduta accanto alla finestra. Se la sesta sala, dedicata al '700, è dominata dalla grande tela del San Giovanni vittorioso del Tiepolo e tre tele di Goya, la sala successiva è quella che regala più sorprese. Ci sono simbolisti ungheresi quali Joszef Rippi-Ronai e Janos Vaszary vicino a Böcklin e Rodin. L'ultima tappa è in sé un compendio di storia dell'arte: uno accanto all'altro, dieci opere-simbolo spiegano il passaggio dall'Impressionismo all'Avanguardia.

Dalla grande tela, dominata dal bianco, della «Donna con ventaglio» di Manet alla natura morta di Cezanne, ai pescherecci di Monet, al disegno in bianco e nero del giardino invernale firmato da Van Gogh fino ai «Maiali neri» di Gauguin.

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