Cronaca locale

Capolavoro al contrario dei renziani di Milano: dissolti in due anni

Partito in mano alla sinistra interna, numeri deludenti alle Comunali. Archiviate le speranze di novità

Alberto Giannoni

Il Pd di Milano, oggi, è la spia del fallimento renziano. E la sofferta gestione del caso moschee non è che una delle occasioni perse dalla dirigenza democratica ambrosiana. Non è l'unica.

Sono passati poco meno di tre anni dalla vittoria di un renziano, Pietro Bussolati, nella sfida per la segreteria di Milano. E a dicembre saranno passati tre anni dalla conquista del Pd nazionale da parte di Matteo Renzi. Ora qui, nella città più dinamica d'Italia, si disegna la parabola discendente del segretario-premier. Certo alle Comunali di giugno il Pd si è salvato in calcio d'angolo, confermandosi per una manciata di voti in una città che insieme a Giuliano Pisapia amministrava già dal 2011. Se Renzi siede ancora a Palazzo Chigi lo deve a questo: al vittorioso rush finale di Beppe Sala. Questa però è solo una faccia della medaglia. L'altra è l'operazione di sganciamento da Renzi che Sala ha condotto nelle ultime settimane di campagna elettorale. Sala non ha vinto le elezioni comunali come un candidato renziano, un manager prestato alla politica renziana. No, con una buona dose di pragmatismo e lungimiranza, Sala ha vinto le Comunali presentandosi come un nuovo Pisapia, le ha vinte appoggiandosi sulla sinistra Pd, le ha salvate stringendo all'ultimo tuffo un accordo elettorale con la sinistra di Rifondazione Comunista, la stessa che aveva contestato l'evento del 2015 e i suoi volti-simbolo.

Milano è città che misura spessore e velleità di leader e linee politiche. E oggi a Milano si sta dissolvendo, per errori e timidezze, la leadership renziana del partito, quella che in teoria avrebbe dovuto essere riformatrice, meno legata ai riti del vecchio Pci, più attenta alle istanze di modernizzazione. Nella giunta di Sala i renziani non sono che una minoranza. E nel gruppo consiliare di Palazzo Marino sono un terzo circa del totale. Il vero leader del partito milanese, poi, si chiama Pierfrancesco Majorino. È il candidato che ha avuto più preferenze. Ma è anche quello che si è visto generosamente assegnare la posizione di capolista. D'altra parte è stato Majorino a gestire il delicato caso moschee, chiudendo il mandato con un nulla di fatto che ha irritato tutti, in particolare i dirigenti musulmani. È stato Majorino, legittimamente (e dal suo punto di vista con successo) a sostenere la candidatura della musulmana e dirigente Caim Sumaya Abdel Qader, mentre il Pd renziano non ha sostenuto certo con altrettanta forza la musulmana laica Maryan Ismail. Il Giornale, in tempi non sospetti (era ancora una dirigente del Pd) aveva riconosciuto in lei il volto ideale a cui affidare la moschea di Milano.

La scelta di confinarla in un incontro a porte chiuse è solo l'ultimo episodio di questa «ritirata» di un Pd nuovo, che non c'è.

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