Cronaca locale

Carlo Carrà, ritorno a Milano del rivoluzionario silenzioso

Apre una grande antologica in sinergia con gli eredi dell'artista: 130 opere dal Divisionismo al Futurismo

Carlo Carrà, ritorno a Milano del rivoluzionario silenzioso

Visse un'esistenza appassionata Carlo Carrà. E la mostra che ha appena aperto a Palazzo Reale (Carlo Carrà, fino al 2 febbraio), ne è la riuscita dimostrazione. L'esposizione è una sorta di ritorno a casa per l'artista (1881-1966) che a Milano fu celebrato, per volere del noto critico Roberto Longhi, già nel '62 (e poi ancora nell'87): si rafforza così il già saldo rapporto tra Carrà e la città dove scelse di vivere, in via Vivaio, e di formarsi (a Brera). Mostra importante, questa: è l'antologica più completa mai realizzata sul maestro novecentesco, complice la collaborazione degli eredi della famiglia, in particolare del nipote Luca Carrà, e la cura di Maria Cristina Bandera.

«Figura potente ed emblematica, artista sempre desideroso di andare oltre, di aprire nuove strade, in libertà, senza rinunciare a essere se stesso», così Bandera, che ne è profonda studiosa, definisce Carrà. Le 130 opere ora esposte al piano terra di Palazzo Reale, suddivise in sette sezioni, partono dai primi lavori divisionisti dell'anno 1900 e arrivano agli anni Sessanta (Carrà dipinse infatti fino all'ultimo): questa ricchezza di quadri, unita ai molti documenti, tra cui fotografie, lettere e una chicca come il filmato a lui dedicato girato da Piero Portaluppi, permettono di comprendere la complessità di Carlo Carrà.

Fu innanzitutto artista faber, abile nell'uso dei pennelli (anch'essi esposti): i suoi lavori, compresi i grandi classici come Il pino sul mare, La musa metafisica o Estate, che è il quadro-icona dell'esposizione, vanno visti da vicino. Carrà fu artigiano sì, ma anche intellettuale inquieto e cosmopolita, con la valigia sempre pronta (Parigi, Londra: incontra Apollinare, Picasso). Lui che era nato in provincia di Alessandria trova a Milano il «gruppo giusto» (Marinetti e i suoi) per cavalcare la rivoluzione futurista: la mostra ben racconta, nelle prime due sale, il passaggio da una prima pittura squisitamente divisionista agli ardori futuristi (notevoli i fogli, come Rapporto di un nottambulo milanese, i ritratti degli intellettuali che frequentava, tra cui quello, proveniente da Yale, di Ardengo Soffici). Milano è in fermento e Carrà ne ritrae l'uscita dai teatri, i tram, le luci, la borghesia (Donna con assenzio, Notturno a piazza Beccaria): la sua pittura si nutre della vivacità metropolitana. Poi, come spesso accade nella sua carriera pittorica, la svolta improvvisa: dopo lavori di grande effetto come il sublime Cavaliere rosso prestato dal Museo del 900, la quiete. Carrà si volge verso le marine liguri, poi a quelle tanto amate di Forte dei Marmi e di Venezia: realizza una delicata pittura paesaggistica che prelude alla raffinata stagione metafisica, quando incontra De Chirico e Savinio. L'architettura delle forme domina ogni suo lavoro: il ritorno alla natura, nei decenni successivi, lascia spazio alla rappresentazione dei corpi e all'analisi dei loro volumi nello spazio. Sala dopo sala, in una galleria di lavori che passa dalle nature morte a quelle metafisiche senza tralasciare i ritratti, approdiamo ai quadri degli ultimi anni (La stanza, Marina all'alba: hanno un sapore quasi hopperiano). Il risultato è una mostra di capolavori, grazie anche ai notevoli prestiti dal Pushkin di Mosca, dalla Kunsthaus di Zurigo e poi da Brera, dagli Uffizi, da collezioni private (su tutte: quella Giovanardi).

Unica assenza rimarcata con dispiacere dai curatori - il mancato prestito dalla Galleria Nazionale d'arte moderna di Roma del L'ovale delle apparizioni, magnifico interno metafisico.

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