Cronaca locale

Carlo Cecchi insegna il «lavoro di vivere»

Carlo Cecchi insegna il «lavoro di vivere»

Un disarmante aforisma di Rabbi Tarfon, in tutto simile a una massima zen, afferma che «il giorno è troppo breve per la mole di lavoro che c'è da fare». Un'urticante commedia di Hanoch Levine, in cartellone al Franco Parenti da mercoledì 22 ottobre a domenica 21 dicembre, diretta da Andrée Ruth Shammah e interpretata da Carlo Cecchi, si intitola «Il lavoro di vivere». È possibile che il «lavoro» di cui parlano un ispirato sacerdote di 1900 anni fa, e il più dissacrante drammaturgo israeliano del ‘900, sia lo stesso? Secondo Michael Handelzalts, il critico teatrale del quotidiano Haaretz, è persino probabile. D'altra parte si sa che, per dissacrare sul serio, bisogna avere una precisa cognizione del sacro, e che spesso un oltraggio è soltanto il risvolto di un omaggio. In fatto di oltraggi alla storia e all'identità israeliana, Levine (scomparso cinquantacinquenne nel '99) non si è fatto mancare quasi nulla. In «You, Me and the Next War», una pièce datata 1968, ha irriso il trionfalismo dilagante a Tel Aviv dopo la Guerra dei Sei Giorni, indicandolo come causa di futuri e devastanti conflitti. Nel 1970 invece ha preso di mira Golda Meir eleggendola a «Regina della vasca da bagno», come recita il titolo di una commedia che, a causa delle furenti reazioni suscitate, non è andata oltre il debutto. Anche nel «Lavoro di vivere», scritto nel 1981 e privo di espliciti riferimenti alla situazione politica mediorientale, il tono del racconto è, come ha detto Carlo Cecchi durante la conferenza stampa dello spettacolo, «all'insegna del sarcasmo più feroce»: anzi, di una «disperazione paradossalmente allegra», come ha chiosato la Shammah. Il gioco al massacro di Yona e Leviva, due coniugi sulla soglia dei sessant'anni e prossimi alla deflagrazione del loro matrimonio, si svolge tra un uomo che apostrofa la moglie «stupido animale», e una donna che insiste sul «pene invecchiato» del marito. Nella lettura di Cecchi, Yona «imputa a Leviva la causa di questa deriva esistenziale», anche se non riesce a non provare compassione e attrazione nei suoi confronti, sino ad ammettere che «non riesce a vivere né con lei né senza di lei». Quanto di autobiografico c'è in questa asserzione, fino a che punto Levine ha vissuto il medesimo atteggiamento nei confronti di Israele? Chissà. Di certo sappiamo che «il giorno» si è rivelato molto «breve» per lui proprio come per Yona, e che anche lui, come il protagonista della sua pièce, ha spesso manifestato frustrazione per un'esistenza che considerava incompiuta.

Può darsi allora che il suo «lavoro di vivere», e forse anche quello di scrivere, trovi senso in quest'altro aforisma di Tarfon: «non spetta a te compiere l'opera, ma non sei esentato dal doverci provare».

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