Cronaca locale

Per il caso Maugeri Daccò e Simone patteggiano in appello

Svolta nel processo per delibere sulla sanità La procura rifiuta l'accordo con Formigoni

Per il caso Maugeri Daccò e Simone patteggiano in appello

Quanto ha fatto dentro, signor Daccò? «Cinque anni, due mesi e undici giorni». Come tutti quelli che son stati in carcere, Piero Daccò sa a memoria il conto che gli è toccato pagare e che gli si legge tutto addosso: ruga per ruga e nell'abito che gli cade troppo largo. In cella non ci vuole tornare. Così ieri mattina, quando in Corte d'appello si apre il processo per le tangenti sulla sanità lombarda, chiede di patteggiare. Ha già espiato la pena per il crac del San Raffaele; in quest'altro processo in primo grado gli avevano dato nove anni. Il rischio di tornare dietro le sbarre è concreto. Così rinuncia a difendersi, per la prima volta, e il suo avvocato Gabriele Vitiello avvia le trattative con l'accusa. Risultato: due anni e sette mesi. La Corte d'appello ratifica l'accordo, li farà in affidamento ai servizi sociali. Stessa sorte per Antonio Simone: tre anni e otto mesi, carcere evitato.

Per l'accusa, erano loro due i registi della lobby targata Comunione e Liberazione che indirizzava verso le imprese amiche fette milionarie del bilancio della Sanità pubblica lombarda: grazie all'asse di ferro con Roberto Formigoni, amico fraterno di entrambi. Dal processo di primo grado, sono usciti con le ossa rotte. Simone e Daccò condannati anche per associazione a delinquere; Formigoni assolto dall'associazione, ma condannato per corruzione a sei anni.

Anche Formigoni ieri è in aula. Si siede davanti alla panca di Daccò. I due vecchi amici quasi non si guardano. L'epoca rutilante del potere, delle vacanze in yacht, dei vini da collezione, delle ville in Sardegna, sembra appartenere a un'altra era geologica. Entrando in aula, l'ex governatore ha fatto dichiarazione di ottimismo: «Sono fiducioso. So quello che ho fatto e quello che non ho fatto. E so di non aver commesso reati». In realtà, pare che anche Formigoni abbia provato a patteggiare con i suoi accusatori una condanna a due anni. Laura Pedio, procuratore aggiunto, e il procuratore generale Vincenzo Calia non sono stati neanche a pensarci: due anni sono troppo pochi, andiamo avanti col processo.

Così si parte, si torna a scavare in quel viluppo di relazioni politiche, di amicizia e di affari che le indagini della Procura hanno indicato come un unico gruppo di potere in grado di fare il bello e il cattivo tempo in Regione. Strada facendo il teorema dell'accusa ha perso qualche pezzo: la Procura non chiede più la condanna di Formigoni per associazione a delinquere; le assoluzioni dei manager regionali Carlo Lucchina e Carlo Maria Sanese non sono state impugnate e sono divenute definitive. Così, usciti di scena col patteggiamento Daccò e Simone, sul banco degli imputati restano Formigoni, il direttore della Fondazione Maugeri Costantino Passerino, l'ex moglie di Simone, Carla Vites e un presunto riciclatore svizzero, Carlo Farina.

«Motivi processuali - dice Gabriele Vitiello, difensore di Daccò, spiegando la scelta di patteggiare - ci hanno condotto a una decisione sofferta che non mina la mia convinzione di un innocente ingiustamente condannato».

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