Cronaca locale

Cechov in scena, ma alla "genovese"

Il «Gabbiano» riletto da Sciaccaluga: produzione di «grande impatto»

Cechov in scena, ma alla "genovese"

Che cos'è il «Gabbiano»? Un classico del teatro, un testo del grandissimo Cechov, scrittore che descriveva, disse qualcuno, «la vita color tortora». Ogni tanto arriva nelle nostre sale, variamente riletto, diversamente adattato. Al Carcano, fino al 10 febbraio, c'è «Il gabbiano» diretto da Marco Sciaccaluga per il Teatro Nazionale di Genova, ovvero l'ex Stabile del capoluogo ligure. L'allestimento non è al risparmio, come lo sono molti lavori che vediamo in questi tempi magri, ma è addirittura «sontuoso, di grande impatto» (si legge nella locandina di lancio). Elenchiamo gli attori del cast, tutti di vaglia: Roberto Alinghieri, Alice Arcuri, Elsa Bossi, Eva Cambiale, Andrea Nicolini, Elisabetta Pozzi, Stefano Santospago, Roberto Serpi, Francesco Sferrazza Papa, Kabir Tavani, Federico Vanni.

Il testo su cui si basa la messinscena è il primo del 1895, non ancora sfalciato dalla censura zarista; povero Paese, la Russia, che passa da una censura all'altra. Anton Cechov lo scrisse quando aveva solo 25 anni: bisognerebbe ricordarlo oggi, epoca in cui consideriamo giovani autori anche nomi di trenta e quarant'anni, se non più. I sapienti di teatro e i cechoviani non nascondono che l'opera abbia qualche difetto, non possieda la rotondità drammaturgica di altri lavori firmati dallo scrittore russo (la prima in Russia fu un clamoroso fiasco). Ma se non è rappresentato con sufficiente frequenza, il motivo è la sua indubbia difficoltà. A Milano, abbiamo visto al Piccolo, nel 2016, il «Gabbiano» di Carmelo Rifici, e ci eravamo immersi in un'atmosfera incantata e misteriosa che aveva convinto, critica e pubblico. Come si è avvicinato, Sciaccaluga, al capolavoro? Con il rispetto dovuto ai classici e ai giganti, ne siamo sicuri. Il titolo, come l'albatro di Baudelaire o i gabbiani di Cardarelli che vivono «balenando in burrasca» alla ricerca di un nido, è simbolico. C'è una ragazza che viene portata via sulle ali dell'amore, per poi scoprire che l'amore stesso è un inganno, da guardare con sospetto, pur non potendolo evitare. I toni di malinconia sono quelli tipici di Cechov, gran conoscitore dei recessi umani. Nel «Gabbiano» c'è la società del tempo, i dolori esistenziali degli anni che passano, i sogni soffocati sul nascere, gli impeti presto spenti. Tutto materiale d'oro per un regista e per un attore, teatro puro che aspetta soltanto di essere raccolto come un frutto maturo. Nina, Konstantin, Irina Arkadina, Trigorin, diventano presto nostri fratelli che ci parlano dal palcoscenico, suscitando in noi l'autoanalisi dei sentimenti.

Sciaccaluga riporta, nelle note di regia, il brano di una lettera che Gorkij scrisse a Cechov dopo aver visto a Mosca «Zio Vanja». Eccolo: «Guardando il vostro teatro, bisogna essere dei mostri di virtù per amare, compatire, aiutare a vivere queste nullità, questi sacchi di trippa che siamo. Vedete, a me pare che trattiate gli uomini con il gelo del demonio!». Cechov spietato.

«Ma il suo teatro della crudeltà», conclude Sciaccaluga, «è il più umano che io conosca».

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