Cronaca locale

«Cesarone» al Famedio Lo spogliatoio giusto per il grande capitano

Maldini iscritto da oggi tra i cittadini illustri È stato punto di riferimento per generazioni

Daniele Abbiati

Arrivò da noi portato dal vento dell'Est. Fu il santone ungherese Béla Guttmann a sentenziare: «Questo ragazzo è da Milan e nel Milan giocherà». E fu la bora di Trieste, alimentata dallo sbuffare secco e paterno del Paròn Rocco, a sospingerlo fino a qui, dietro pagamento di 58 milioni di lire. Poi la sorte volle che la prima partita ufficiale in rossonero la giocasse, il 19 settembre del '54, proprio contro la sua Triestina. Da quel giorno Cesare Maldini divenne il Cesarone che da oggi, insieme a Herbert Kilpin, primo buon diavolo della storia, palleggia nell'eternità al Famedio.

È il posto giusto per lui, che fu libero in campo, per ruolo, ma sempre con addosso, sotto la casacca, quella miracolosa, taumaturgica maglia della salute che si chiama libertà dell'esercizio del dovere e dell'esempio. Nella Milano anni Cinquanta e Sessanta, la Milano locomotiva d'Italia azionata dai grandi capitani d'industria, prima con la ricostruzione e poi con il boom economico, Cesarone è stato capitano di uomini, punto di riferimento per generazioni di compagni e avversari. Senza proclami, promesse, procuratori. Ma sempre a pro degli altri. Non ci sarebbe stato, quel Rivera, senza Cesarone. Non ci sarebbe stato quel Baresi se non avesse respirato, anni dopo, la sua stessa aria dalle parti di Milanello. Ce lo dicono il cuore e la mente. Quanto alla genetica, indiscutibile marchio di fabbrica delle umane gioie e degli umani tormenti, è persino inutile interpellarla. Basta confrontare le foto in bianco e nero del giovane Cesarone con quelle a colori del suo Paolo (Paolo Cesare, precisa l'anagrafe, e come dargli torto?), un altro capitano alla Cesare Maldini, per sangue, educazione e tempra. Il rosso, il nero, l'azzurro della Nazionale, il bianco elegantissimo delle notti di coppa come quella volta, la prima volta per una squadra italiana, a Wembley, contro il Benfica, quando alzò la Coppa dei Campioni. Sono questi i colori di Cesarone, di una bandiera cittadina, al netto della rivalità con gli interisti.

Per oltre sessant'anni la bandiera di Cesarone ha sventolato su Milano e oggi Milano ne sente ancora il fruscio, la musica sommessa. Per lui entrare al Famedio sarà come entrare per la prima volta in un nuovo spogliatoio. Non picchierà i pugni sul tavolo, non farà grandi discorsi. Si metterà seduto dove c'è posto, come su una panchina da allenatore, inconsolabile per la perdita dall'adorata Marisa. I compagni lo seguiranno con lo sguardo, e lui si presenterà. Anche se non ce ne sarebbe bisogno.

Lo sanno benissimo anche loro che quel bel signore con gli occhi azzurri si chiama Cesarone, il Capitano.

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