Cronaca locale

Dalle tracce al coltello Al processo Cozzi è guerra fra scienziati

L'ex conduttore tv accusato dell'omicidio di un socio. La difesa sostiene la tesi suicidio

Cristina Bassi

Il clou della mattinata è il momento in cui in aula arriva l'arma del delitto. Un grosso coltello da cucina con l'impugnatura nera avvolto nella plastica bianca. Consulenti tecnici e avvocati fanno capannello davanti al banco dei giudici. Ci sono ex comandanti del Ris, accademici, luminari della Medicina legale. Mimano il delitto e dibattono: «Questa ricostruzione non è compatibile con la tesi dell'omicidio...», «Certo, ma la pista del suicidio perde di forza se analizziamo inclinazione e forma della ferita...».

Corte d'Assise, processo ad Alessandro Cozzi per l'omicidio di Alfredo Cappelletti. All'epoca del delitto, nel 1998, i due erano soci in affari. L'imputato, che è stato anche un volto noto della Rai, sconta già una condanna a 14 anni per l'omicidio nel 2011 di un altro socio, Ettore Vitiello. La morte di Cappelletti era stata inizialmente archiviata come suicidio, ma lo scorso anno il cold case è stato riaperto. Ieri davanti ai giudici presieduti da Giovanna Ichino sono andate in scena simulazioni e casistiche degne di Csi. Prima è toccato ai consulenti della parte civile, cioè i familiari della vittima assistiti dall'avvocato Luciano Brambilla. Hanno deposto insieme Luciano Garofano, già comandante del Ris dei carabinieri, Roberto Testi, direttore di Medicina Legale a Torino, e Alberto Bogoni, medico legale. Sono state analizzate forma e dimensione delle macchie di sangue finite su un termosifone poco lontano dal cadavere, trovato riverso in ufficio dietro la scrivania. Tracce proiettate dalla «forza centrifuga» (fenomeno noto tra gli scienziati forensi come cast-off) nel momento in cui il coltello è stato sfilato dalla ferita, dopo il colpo. Il gesto di estrazione dell'arma, ritrovata poi appoggiata sull'addome di Cappelletti, è da attribuire secondo gli esperti ingaggiati dalla parte civile all'assassino e non alla vittima. «Non ho mai visto in decenni di esperienza un suicidio in cui il coltello non sia rimasto nella ferita letale», ha dichiarato Testi. Il secondo elemento è la misura dell'unica lesione, 3 centimetri sopra il capezzolo sinistro di Cappelletti. Nella parte profonda, intercostale, misura circa 9 centimetri. Mentre la lama era alta 4. Una «differenza geometrica» definita dai consulenti «usuale in un'aggressione, in cui la vittima si dimena. Del tutto inusuale invece in un suicidio». Infine la ferita sul palmo destro di Cappelletti, in orizzontale sotto il pollice, nella stessa mano con cui avrebbe impugnato il coltello per uccidersi. «Si tratta a nostro avviso - hanno concluso gli esperti - di un gesto istintivo, di chi si porta la mano dove è stato colpito».

Antonio Farneti, all'epoca direttore dell'Istituto di Medicina legale di Milano, e Andrea Piccinini, docente della stessa disciplina, hanno al contrario confermato le conclusioni tratte nel 1998 a sostegno della tesi del suicidio. «Tutte le tracce genetiche trovate sulla scena - ha sottolineato Piccinini - appartenevano alla vittima. Non è stato trovato alcun Dna diverso, neppure sotto le sue unghie». La domanda del pm Maurizio Ascione: «Neanche quello dei soccorritori?». Risposta: «No». Ha sintetizzato Farneti: «Ci sono elementi a favore del suicidio al pari di quelli che suffragano l'omicidio. È impossibile dal punto di vista scientifico provare l'una o l'altra ipotesi. Ma mi chiedo perché mai un assassino avrebbe dovuto togliere l'arma dal corpo...».

Si torna in aula il 9 giugno.

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