Cronaca locale

Dietro al Bolshoi alla Scala c'è Kusnirovich il magnate russo innamorato della danza

L'uomo d'affari: "Amo l'arte, se un'operazione ha un valore io la sostengo"

Dietro al Bolshoi alla Scala c'è Kusnirovich il magnate russo innamorato della danza

A Mikhail Kusnirovich (1966) piacciono le grandi imprese. Ha portato il lusso nella Piazza Rossa di Mosca rilanciando Gum, lo storico shopping mall voluto dagli zar, mortificato durante gli anni sovietici, quindi trasformato nel tempio dei marchi di punta del made in Italy. Già nel 1991 aveva lanciato il colosso di distribuzione del lusso italiano, Bosco di Ciliegi. A Kusnirovich si deve in gran parte - quella conta: l'economica - la presenza alla Scala della compagnia di ballo del Bolshoi (fino al 13). Che ha visto brillare, con un successo personale, l'unico italiano nella compagnia moscovita, Jacopo Tissi.

Kusnirovich è un miliardario con l'attrazione per l'arte, la sostiene in Russia e in Europa. Ha poi un debole per l'Italia, e per la Scala tanto che non si esclude il suo intervento per «Chovansina»: la maxi-opera di Musorski attesa in febbraio nel nuovo allestimento di Mario Martone e la direzione musicale di Valery Gergiev. Lunedì, la sua presenza ha calamitato alla Scala alcuni dei grandi nomi della moda, da Miuccia Prada a Alberta Ferretti, Francesco Vezzoli, Gerolamo Etro, Jacopo Etro, Gianluca Isaia, Marco Boglione. In un perfetto italiano, con simpatica inflessione emiliana, Kusnirovich ci spiega di non avere competenze specifiche in arte, ha una laurea in ingegneria chimica, ed è uomo d'affari. Conta una cosa, però, che «l'arte sia autentica, sincera: cosa che in genere riesco a intercettare. Poi spazio dalla pittura alla scultura, dal teatro puro a quello d'opera, ho un debole per la danza e per il cinema, quest'anno non mi è stato possibile, ma l'anno scorso ho seguito la Mostra del Cinema di Venezia». Anticipa che tornerà per la prima della Scala, il protagonista (Attila) è l'amico Ildar Abdrazakov, così come sarà a Milano per Chovansina. Qual è la gioia del mecenate? «Non parlerei di gioia. Non mi interessa dimostrare a me stesso di essere una brava persona che sostiene l'arte. Amo la cultura, i miei affari vanno bene dunque se capisco che un'operazione culturale è genuina, ma necessita di sostegno, intervengo. Mi piace spendere i soldi così. È inoltre un insegnamento per i miei figli che così capiscono che vale la pena supportare cose vere e durature, dispensatrici di emozioni». Cosa ricorda della Russia comunista? Sorride: «Quei tempi, in fondo, mi piacciono. Erano gli anni della giovinezza. E comunque non era tutto negativo», la mente però va proprio a quelle, «non si poteva scegliere, era tutto uniformato. C'era una cosa che procurava grande sofferenza: intromissione di regole esterne nelle nostre vite private». E ancora.

Conosce i libri di Svetlana Aleksievic, Premio Nobel per la Letteratura nel 2015, «dicono verità, però la vita non era così grigia, era multicolor. Mio nonno visse la fase di Stalin, partecipò alla guerra e finì in prigione con altri 20 milioni di persone. Ma quella era un'epoca legata a Stalin. Nonostante questa tragedia, la mia famiglia non visse male». Non risparmia invece critiche agli Usa, «dopo l'embargo non siamo certo diventati più felici. Non ci saremmo mai aspettati queste azioni. Siamo rimasti delusi. La Russia non è colpevole di tutto, ha fatto anche cose positive, ha sviluppato l'industria per esempio. Anche stiamo per aprire un'azienda d'abbigliamento con mille dipendenti e una manifattura esclusivamente russa, con tecnologia tedesca e know how italiano.

In tanti hanno risentito delle sanzioni, a parte l'America ovviamente, è lontana».

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