Cronaca locale

Dal Guggenheim alla Gam una Tempesta mediorientale

Il museo newyorkese presenta una mostra di 13 artisti contemporanei tra storia, guerre, e immigrazione

Dal Guggenheim alla Gam una Tempesta mediorientale

Entrare alla Gam, la raffinata Villa Reale di via Palestro voluta da Ludovico Barbiano di Belgioso e ideata da Leopold Pollack sul finir del Settecento, provoca un considerevole cortocircuito mentale. Ora ospita infatti «Una tempesta dal Paradiso: arte contemporanea del Medio Oriente e Nord Africa» (dall'11 aprile al 17 giugno): mentre la Siria è attraversata da una guerra di cui abbiamo perso il bandolo, il titolo dell'esposizione temporanea suggerisce tutto quel che di importante c'è da sapere, ovvero che la creatività dell'altra sponda del Mediterraneo è pronta a deflagrare contro i luoghi comuni dell'Occidente. Poche ma significative opere (16 lavori firmati da 13 artisti) portano nelle sale al pianterreno l'ottava e ultima tappa del progetto MAP Global Art Initiative, frutto della collaborazione tra il Guggenheim di New York e UBS per mappare l'arte di oggi nei cinque continenti.

Sara Reza, iraniana, curatrice della sezione mediorientale del progetto, ha scelto per questa collettiva, presentata già nel 2016 nella Grande Mela, il titolo di uno dei dipinti di Rokni Haerizadeh acquarelli che ritraggono migranti nel mare in tempesta a sua volta ispirato alle parole del filosofo tedesco Walter Benjamin secondo cui il progresso si palesa come «una tempesta dal paradiso». Scultura, pittura, video-arte e installazioni esposte rifuggono dalla rappresentazione tradizionale del Medio Oriente: il video «In transitu» dell'afgana Lida Abdul mostra bambini che giocano dentro una carcassa di un aereo sovietico abbattuto decenni fa a Kabul e sembra tratto da un vecchio tg prima di trasformarsi in una parabola di speranza. Quando chiediamo alla curatrice di mostrarci l'opera più significativa, ci porta davanti a un lenzuolo bianco, steso a terra, sul quale sono posti pezzi di bronzo: è «Studio per un Monumento» dell'iraniano, oggi residente in Canada, Abbas Akhavan. Si tratta di calchi di piante che vivono tra il Tigri e l'Eufrate, raccolte in quello che per la cultura semitica è un sudario.

Che cosa ne abbiamo fatto del passato? La risposta arriva da altre opere perturbanti, come gli studi sul patrimonio dell'egiziano Irman Issa e le litografie del libanese Ali Cherri, «paesaggi tremanti» che accostano i terremoti della regione agli scossoni politici. Joana Hadjithomas e Khalil Joreige, coppia di Beirut di stanza a Parigi, creano un'installazione di trecento libri con le didascalie di foto (mai fatte) durante gli anni della guerra civile. Ciò che la storia ha taciuto, l'arte può rivelare? Forse. Parla di «contrabbando concettuale» Sara Reza quando commenta i lavori di questi artisti globetrotter tra Medioriente e Occidente. Di questa collettiva che apre l'Art Week milanese dedicata al mondo del contemporaneo, l'opera più paradossale la firma il franco-algerino Kader Attia: ricostruisce il centro di Ghardaïa, antica città algerina dichiarata patrimonio mondiale dell'Unesco, che con i suoi edifici influenzò Le Corbusier. Il modellino occupa una stanza, è giallo paglierino e profuma di buono: è fatto con mattoncini di cous-cous..

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