Cronaca locale

I derelitti dell'accoglienza: "Cacciati anche dai centri"

Da piazzale Susa ai giardini Montanelli, viaggio tra gli immigrati espulsi dal Cie e accampati alla meglio

I derelitti dell'accoglienza: "Cacciati anche dai centri"

Piazzale Susa come via Sammartini. E il terreno sotto la tangenziale est, e i giardini pubblici Indro Montanelli. Gli accampamenti di profughi ridisegnano la geografia urbana di Milano. L'ultimo gruppo di migranti allo sbando si è sistemato in piazzale Susa, nella zona semicentrale fra le vie chic intorno a corso Indipendenza e il quartiere popolare dell'Ortica. Si tratta di una trentina di africani, che da una settimana trascorrono le ore centrali del giorno a ciondolare sulle panchine del parco pubblico che segna l'inizio di viale Argonne, nel traffico convulso della circonvallazione esterna. Sono stati espulsi dal centro di via Corelli, conferma la Prefettura, dopo la rivolta scatenata due settimane fa per richiedere migliori condizioni di vita e un'accelerazione nelle procedure per il rilascio di documenti. Provengono dall'Africa subsahariana: Mali, Senegal, Camerun, Costa d'Avorio. Con l'eccezione di due donne, sono tutti ragazzi fra i venti e i trent'anni, perlopiù richiedenti asilo o in attesa di essere convocati davanti al giudice per conoscere l'esito del ricorso contro una sentenza sfavorevole.

«L'Italia mi ha salvato dal mare racconta l'ivoriano Umar, 23 anni, il bianco degli occhi che spicca sulla pelle nerissima del viso E ora chiedo all'Italia di non abbandonarmi in questa piazza, come un cane. Ho chiesto asilo qui perché amo il vostro Paese, non voglio andarmene. Ma non posso vivere così». Umar e i suoi compagni trascorrono le ore del giorno ai giardinetti, facendo la spola fra una panchina e l'altra. Al calar della sera si trasferiscono vicino alla stazione Centrale, dove dormono accampati nella zona di via Sammartini. Ogni giorno vanno a mangiare alla mensa dei frati minori di via Kramer, una volta alla settimana c'è la doccia.

Dicono di non conoscere i motivi per cui li hanno cacciati dal centro di via Corelli, si trincerano dietro l'ignoranza della legge: «Io non sapevo che in Italia non è possibile chiudere gli operatori del centro dietro a una porta protesta Umar gesticolando Se lo avessi saputo non lo avrei mai fatto. Mai. Volevamo solo chiedere i documenti che ci riconoscessero come rifugiati politici». A dargli manforte interviene Christine, corpulenta matrona camerunense. Trentatrenne, cristiana, ha lasciato in Africa un marito e due figli. Le avevano detto, ci spiega, che in Italia si poteva iniziare una vita migliore: «Vivere così, nella polvere, è da animali si infervora Gli operatori del centro d'accoglienza ci hanno messi alla porta da un giorno all'altro, senza nemmeno dirci il perché. Hanno separato le mogli dai mariti, vi sembra giusto?».

Spalleggiata da tutto il gruppo di immigrati, la donna denuncia quella che chiama la «mafia» dell'accoglienza: «Nei campi profughi c'è molto razzismo: gli arabi sono favoriti, più è scura la tua pelle meno diritti hai». Se è difficile accertare l'incidenza di questi «favoritismi», è certo che la situazione di Christine è delle peggiori. In tutta la Lombardia i richiedenti asilo sono quasi diciottomila: a Milano la situazione è al collasso e l'apertura del campo base di Expo, a settembre, non garantirà più di centocinquanta posti letto. Nonostante l'assessore al Welfare Pierfrancesco Majorino moltiplichi le promesse d'intervento, gli africani di piazzale Susa raccontano che nessuno, in sette giorni, si è fatto vivo con loro: non il Comune, non le autorità sanitarie, non la polizia. Solo le «maestre» che al centro d'accoglienza insegnavano loro qualche parola d'italiano. I profughi sono arrabbiati, ma soprattutto increduli. Non si capacitano che il Paese dei loro sogni, l'Italia, abbia deluso le loro aspettative: «Se avessimo commesso un reato saremmo in carcere, giusto? - domanda Umar nel suo francese concitato Ma non abbiamo fatto nulla e ci siamo ritrovati per la strada.

Ma questa piazza è peggio di una prigione: non ho nulla per mangiare e per sfamarmi mi costringono a rubare».

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