Cronaca locale

I giudici sugli appalti Lidl: ecco i guai di D'Alfonso

Il consigliere indagato per corruzione, nella sentenza sulle infiltrazioni dei clan la conferma

Cristina Bassi

Nel «capitale sociale del sodalizio» che affondava le radici in terreno mafioso, insieme a imprenditori e professionisti, c'erano esponenti della Pubblica amministrazione. Del Comune in particolare. E nelle motivazioni della sentenza emessa lo scorso novembre, alla fine del processo di primo grado su presunte infiltrazioni del clan catanese dei Laudani in appalti al Nord per la sicurezza alla Lidl e al Palazzo di giustizia, la Settima sezione si sofferma ampiamente su due figure milanesi di spicco: Franco D'Alfonso e Antonio Barbato. Il primo, assessore con Pisapia e oggi consigliere della Lista Sala, indagato per corruzione, come confermano proprio i giudici. Il secondo mai indagato, ma rimosso dall'incarico di comandante dei vigili a causa di una intercettazione agli atti di questa inchiesta della Dda. Al centro della rete disegnata dal pm Paolo Storari c'erano i fratelli Alessandro e Nicola Fazio. La Corte ha inflitto condanne fino a 16 anni e quattro mesi di carcere a sette degli otto imputati.

D'Alfonso compare tra i contatti politici di Domenico Palmieri, ex sindacalista e intermediario dei Fazio. Il procedimento a suo carico è in fase di indagine, anche se si profilerebbe una richiesta di archiviazione da parte del pm. In veste di delegato alla Città metropolitana, competente tra l'altro per l'Idroscalo, venne agganciato dall'organizzazione nel dicembre 2016. «Poteva essere utile» per ottenere commesse nel progetto di rilancio del parco e la gestione del bar interno. In cambio, Palmieri gli aveva promesso «appoggio elettorale a Sesto San Giovanni» per le elezioni del 2017. Si legge: Palmieri e un imprenditore suo amico «contavano di seguire le indicazioni loro offerte da D'Alfonso» per partecipare alla gara per il locale. Ancora: «Il bando era destinato a restare pubblicato per soli 10-15 giorni all'Albo pretorio». Dell'incontro al ristorante Terraferma del gennaio 2017 fra Barbato, Palmieri (che riceveva per i suoi servigi 1.000 euro al mese) e Alessandro Fazio si era saputo al momento degli arresti. Per l'accusa, Fazio era interessato ad appalti per la sicurezza in Comune e offrì a Barbato di far pedinare un collega con cui il comandante aveva diversi contenziosi aperti. Il pedinamento non si è mai verificato. Tuttavia, scrivono i giudici, alla deposizione del 24 maggio 2018 Barbato «ha sostanzialmente ammesso di aver accettato la proposta di Palmieri di far pedinare da Fazio l'agente Cobelli». L'ex comandante dichiarò: «Sono perfettamente consapevole che in funzione del mio incarico non sarebbe stato conveniente né eticamente corretto che io avessi utilizzato questo Fazio per far seguire un mio dipendente (...). Difatti anche se ho accettato la proposta di Palmieri, non se n'è fatto mai niente».

L'associazione criminale, conclude la Corte, usava Palmieri per «lambire i vertici dell'amministrazione milanese, estendendo così esponenzialmente l'influenza e l'autorità».

E appunto usava «imprenditori, professionisti, politici ed esponenti della Pubblica amministrazione che, per interessi di carattere economico o per altre ragioni, mettono le proprie competenze a disposizione di associazioni criminali, aumentandone in tal modo la capacità di penetrazione nella società civile».

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