Cronaca locale

Industrial Revelation, il jazz dei garage di Seattle

Il quartetto americano improvvisa e contamina il classico con funk, elettronica e l'hip hop

Luca Testoni

E chi l'ha detto che, musicalmente parlando, Seattle è «solo» la città natale di Jimi Hendrix e la culla del grunge, il fenomeno più significativo del rock di fine Novecento che ebbe tra i suoi paladini Nirvana, Pearl Jam, Alice in Chains e compagnia cantante? Niente di più sbagliato. Lassù, nel Nord-Ovest degli Stati Uniti, anche il jazz e affini possono vantare una tradizione di tutto rispetto, anche se, ovvio, meno nobile di New York e Chicago, che affonda le sue radici negli anni Quaranta. Tra l'altro, negli anni Cinquanta fu proprio Seattle a tenere a battesimo un giovanissimo Quincy Jones e a celebrare i primi successi di Ray Charles. Senza dimenticare la stagione ribattezzata Wheedle's Groove, tra la metà degli anni Sessanta e Settanta, in cui la città del Boeing conobbe una sorta di età dell'oro del soul-funk. Da un decennio a questa parte, a Seattle (e ormai non solo a Seattle) non si fa che parlare (e scrivere) un gran bene degli Industrial Revelation, e cioè degli ospiti di domani mattina (ore 11) al Teatro Manzoni, tra i nomi più innovativi del cartellone di «Aperitivo in Concerto».

Formato dallo spettacolare trombettista Ahamefule J. Oluo (classe 1982), un fuoriclasse assoluto; dal batterista D'Vonne Lewis (classe 1983); dal contrabbassista Evan Flory-Barnes (classe 1979); e dal tastierista Josh Rawlings (classe 1982), l'eccellente e ben amalgamato quartetto statunitense ha dimostrato di trovarsi a proprio agio con un jazz di matrice strumentale e fedele all'estetica dell'improvvisazione nella sua versione più spinta e d'avanguardia, senza disdegnare le contaminazioni, specie con l'elettronica, il funk e l'hip-hop, complice la collaborazione con il vocalist-rapper-performer Okanomodé Souldchilde, anche lui presente al concerto milanese degli Industrial Revelation. Nel tentativo di definire la strabordante creatività che caratterizza le loro composizioni, estrose certo e, a seconda dei casi, intense e introspettive, la critica ha coniato un'etichetta nuova di zecca: garage jazz.

Un sound che trova il suo compiuto manifesto nell'album, autoprodotto, « Liberation & the Kingdom of Nri», 22 brani sulle tracce del jazz che verrà.

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