Cronaca locale

Intorno a un pallone contro l'antisemitismo: «È uguale al razzismo»

Da Anna Frank ai cori contro i napoletani Jarach: «Gravi non solo gli attacchi agli ebrei»

Sabrina Cottone

Gli adesivi che ritraggono Anna Frank in maglia giallorossa all'Olimpico, con il messaggio lanciato da alcuni laziali: «romanisti ebrei». Correva lo scorso ottobre e la polemica si era innestata sulla polemica e cioè se valesse la pena discutere di antisemitismo, se erano quattro stupidi vocianti, se il simbolismo (sic) andasse rispettato o punito o se forse invece non fosse il caso di aggiungere Anna ai tanti report che sottolineano la rinascita di focolai razzisti e antisemiti in Europa (e non solo). Tutto ciò aveva annacquato la questione di base. Non per tutti.

Al memoriale della Shoah, alla vigilia della giornata della Memoria del 27 gennaio per commemorare le vittime dell'Olocausto, l'appuntamento di ieri sera è stato dedicato al mondo del calcio anche grazie a Anna Frank.

C'è chi accusa gli ebrei di pensare solo alla Shoah, e quindi in fondo a se stessi, ma qui al Binario 21, da dove sono partiti treni nel silenzio, carichi di uomini colpevoli solo di non essere di «razza ariana», nelle notti di freddo è capitato che fossero allestite brandine per ospitare migranti senzatetto. E oggi si parla di razzismo, non solo di antisemitismo. La scritta scolpita a caratteri cubitali nella pietra «Indifferenza» non accusa solo i 15 convogli partiti tra il 1943 e il 1945 come se nessuno si accorgesse di nulla.

C'è l'oggi del giallista napoletano Maurizio De Giovanni, il papà del commissario Ricciardi che si muove e indaga negli anni '30, quando l'aria antisemita inizia a farsi sentire. «Intendo insistere su questo tema ancora di più alla luce di quel che accade oggi, dove l'antisemitismo si mescola al razzismo - racconta De Giovanni -. Siamo reduci da Atalanta-Napoli, in cui per novanta minuti anziani e bambini hanno urlato cori di discriminazione contro Napoli e i napoletani. Chiunque abbia mai pensato che non vale la pena ricordare, è evidentemente in errore». Racconta di aver accettato l'invito al Memoriale su richiesta del suo manager e di condividerne pienamente gli intenti: «Sono molto tifoso, quando capita seguo il Napoli in trasferta e mi accorgo che ci sono molti problemi di razzismo al Nord».

Se forse alcuni di noi si sono abituati a sentire «ebreo» come una parola indolore e incolore, non vale per tutti e meno che mai per gli offesi. Spiega Roberto Jarach, vicepresidente del Memoriale della Shoah: «Chi lo ascolta prova sofferenza. Non ci si rende conto della pericolosità nel sottovalutare manifestazioni di intolleranza, come slogan e battute, sulla formazione dei giovani. Se dico milanisti ebrei, interisti ebrei, ha un peso. Non succede solo negli stadi, ma gli stadi sono l'amplificatore più evidente e potente perché ha contatto con i giovani». Ancora Jarach: «È importante che il calcio, mondo sensibile ai temi dei giovani, prenda piena coscienza dei nascenti problemi del razzismo con i migranti, della xenofoxia e dell'antisemitismo che si stanno riaffacciando, dandoci grosse preoccupazioni». È così che sono partiti inviti per Milan, Inter, Juve, Napoli, Calcio Femminile e arrivate conferme da Javier Zanetti a Gianni Rivera. Da Gianluigi Donnarumma a Beppe Bergomi. Da Sandro Mazzola ad Andrea Conti.

Si ricordano protagonisti del mondo del calcio anni '30 e '40 come Arpad Weisz, Carlo Castellani, Giorgio Ascarelli. E il calciatore del Milan Ferdinando Valletti, deportato a Mauthausen nel 1944, tornato vivo. Racconta la figlia Manuela: «Il calcio gli ha salvato la vita. Aveva giocato con il Milan per due stagioni ma tornando non era certo in salute, così si è dedicato ad allenare squadre di provincia, senza dimenticare il Milan. Non era ebreo, ma deportato politico: aveva diffuso manifesti in Alfa Romeo legati alla brigata partigiana».

Pallone coraggioso.

Commenti