Cronaca locale

«Io boemo d'Italia che ho combattuto contro l'Impero»

Negli archivi dell'Umanitaria trovate foto e lettere dell'ex presidente Riccardo Bauer

Riccardo Bauer nacque a Milano, ma ciò non voleva dire che fosse italiano. Infatti, non lo era. E in anni in cui tanto si parla di ius soli non è cosa da poco. Ma il diritto non è molto in dimestichezza con il cuore. Si parlano di rado. Talmente di rado che il padre, Francesco, si era innamorato di una maestrina di Mortara dal cognome celebre e un presente modesto, Francesca Cairoli. Solo per questo motivo, Riccardo - con il fratello Augusto e la sorella Adele - vide la luce in Lombardia. L'Ottocento era agli sgoccioli e nessuno sembrava preoccuparsi della stranezza civico-giuridica che aveva dimenticato un boemo in Lombardia. Di lì a un pugno di anni la distinzione avrebbe fatto la differenza. Nel 1915 - quando l'Italia entrò in guerra - chiamarsi Bauer significava dover combattere con l'impero austro-ungarico. E, allo scoppio del conflitto, Riccardo aveva diciott'anni. Finì che chiese la cittadinanza e la ottenne, fece domanda per partire volontario e fu rifiutato ma passarono poche settimane e l'esercito cambiò idea. Era arruolato.

Mantenere il cognome era rischioso perché un atteggiamento ha sempre due volti. Così il coraggio del boemo Bauer come lo interpretarono gli italiani era il tradimento da prospettiva asburgica. E, se fosse caduto prigioniero, avrebbe avuto una condanna certa. La fucilazione. Eppure, non se ne curò. Né lui né il fratello che seguì le sue orme. Affrettarono la naturalizzazione e voltarono le spalle all'Impero che soffocava - per sua natura - libertà, cultura e sviluppo delle specificità che lo componevano. Non che fosse sensibile al nazionalismo, Bauer, semplicemente era contrario all'appiattimento. Negli anni dell'interventismo dovette confrontarsi con bellicosi nazionalisti e accesi neutralisti, più abili a usare le mani che le parole. E gli argomenti non mancavano.

La bufera bellica lo spinse al fronte dove non lasciò che le sue tracce si perdessero nel nulla. Quel ragazzo, appena iscritto alla Bocconi tornò con il suo bagaglio fatto di lettere e fotografie. E il manager che poi divenne, oggi si è scoperto che ebbe anche altre declinazioni, se non professionali almeno documentarie. La memoria di quei tragici anni la seppellì in cinque faldoni ricchi di racconti. Scritti e iconografici che mai più avrebbero visto la luce fino a un anniversario che nulla lasciava presagire la preziosa scoperta. Da quegli scatoloni, oggi, a cent'anni esatti dalla fine delle ostilità sono emerse foto esclusive e inedite di un'esperienza che non segnò soltanto chi imbracciò le armi, ma tutte le generazioni successive. Squarci di dolore che la freschezza e la qualità di scatti e resoconti contribuiscono ora documentare una delle stagioni più drammatiche della storia d'Italia e di un conflitto sanguinoso.

Era il giugno 1916, quando Bauer venne ferito una prima volta all'orecchio. Su quel confine con la Carnia non sapeva ancora che stava per diventare sottotenente. Lo apprese dalle poche righe che gli scrisse il fratello, durante la convalescenza. Bauer ne uscì con una tara acustica che si portò dietro finché visse, ma il peggio doveva arrivare nel novembre del '17 sul monte Tomba, poco prima della ritirata di Caporetto. Una pallottola lo colpì alla spalla e fu salvato da un cappellano e trasportato in un ospedale a Spoleto. Da qui giunsero alla famiglia le sue corrispondenze più dolorose. Le cure e la ripresa le visse come un tormento e un'angoscia nell'attesa spasmodica di tornare a combattere. Le critiche durissime sulla «massacrante e stupida condotta della guerra, nella quale migliaia di uomini erano stati sacrificati con una tattica frontale che solo l'inerzia mentale dello Stato Maggiore dei Pollio e dei Cadorna poteva spiegare» si sommava all'impazienza di riprendere le armi. «Voglio vederli scappare giacché non ho nessun desiderio di arrivare a cose finite a fare la figura del clown nel circo» scrisse ancora alla famiglia.

Il destino glielo avrebbe proibito. Almeno in parte. L'unica conquista risale al 10 novembre 1918. «Da Bassano giunsi con alcuni colleghi in camion a Feltre. Fui riconosciuto e accolto con gioia dai soldati, i quali hanno conservato di me un ottimo ricordo». Otto mesi dopo, nel giugno 1919, sarebbe arrivato il congedo definitivo, ma il senso di Bauer per la guerra non finì quel giorno. L'avversione al nazionalismo lo mise faccia a faccia con l'emblema di un altro patriottismo e soprattutto di un altro impero. Quello che abitava nella mente e nell'ambizione di Mussolini. L'ex soldato, poi diventato sottufficiale gli voltò le spalle coerente con l'idea che lo aveva trasformato in un dissidente dell'Austria Ungheria. Ma stavolta pagò con il carcere e una volta uscito, lui, che aveva abbracciato le idee di Parri, si trovò nella direzione generale del Clnai con Luigi Longo e Sandro Pertini. Nel secondo dopoguerra, un giorno che nessuno conosce, Bauer arrivò con i cinque faldoni negli uffici dell'Umanitaria che presiedeva dal '54 e li nascose in archivio. Da lì, nuovi fasci di luce hanno illuminato le trincee e i contrafforti di un secolo prima, regalando testimonianze e immagini perdute allo scoccare dei cent'anni.

«Dai campi di battaglia» In mostra all'Umanitaria Salone degli affreschi, fino al 22 nov. Ingresso gratis

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