Cronaca locale

Il leader dei Jethro Tull tra mito e nostalgia con il suo flauto magico

Ian Anderson: «La musica è come il sesso Non stanca mai perché ogni volta è diversa»

Antonio Lodetti

Come un fauno... In equilibrio su una sola gamba, l'altra ripiegata all'altezza del ginocchio, fa uscire inquiete e danzanti melodie dal suo flauto magico... Inutile raccontare altro, tutti i fan hanno capito che stiamo parlando di Ian Anderson, leader dei Jethro Tull, detto il Jean-Pierre Rampal del rock, che stasera alle 21 torna in città con un recital a Villa Arconati. Anziano ma grande icona del rock, passando da quei suoni impregnati di folk e blues alla musica classica (celeberrima la sua rilettura di una Bourrée di Bach) a pioniere del progressive rock, ha lasciato capolavori come Stand Up, Aqualung, la suite Thick As a Brick e non si è mai stancato di esplorare nuovi territori artistici, come il doppio album Plays Classic con orchestra sinfonica e ha lavorato con personaggi come la sitarista Anoushka, sorellastra di Norah Jones.

Il suo segreto? «Per me la musica è come il sesso - ci raccontava non molto tempo fa - e il sesso non stanca mai perché ci metti trasporto, perché ti dà la carica e ogni volta è diverso da quella precedente, come un concerto». Un successo dunque fatto di alto artigianato sonoro nato con l'album This Was e con classici come Song For Jeffrey. Osannati dalla critica (anche se ostracizzati da alcuni duri e puri del rock) all'apice della carriera furono giudicati «più famosi dei Beatles». Oggi Anderson con la sua band porta avanti la bandiera dei Jethro Tull cercando di dribblare gli ostacoli della nostalgia con l'umorismo e l'entusiasmo di un ragazzo. La voce ha perso molto, Anderson fa fatica a cantare, ma il flauto non ha perso vivacità e vigore dei tempi migliori.

Oggi il suo concerto recupera il meglio dei Jethro Tull e della sua carriera solista. «Per me i Jethro Tull sono la storia trasportata nell'attualità. Questa band è come una favola che vorrei non finisse mai. Quando partimmo aprimmo la strada a quelle che oggi si chiamano contaminazioni. Avevamo un sound originale a metà strada fra Deep Purple e Yes: meno duro dei primi e meno enfatico dei secondi». I suoi eroi musicali restano il bluesman Robert Johnson e i «classici» Bach e Ives anche se dichiara di ascoltare pochi dischi e leggere pochi libri per non farsi influenzare da nessuno. Dotato di un ego spropositato, Anderson nacque come chitarrista, ma smise quando capì che non avrebbe mai potuto diventare il numero uno. «Ascoltai quel tipo, Eric Clapton, che suonava nei Bluesbreakers di John Mayall e buttai via la chitarra, con lui non sarei mai diventato il numero uno». Un personaggio duttile e divertente che, nel tempo libero, fino a qualche anno fa allevava salmoni nel suo castello e dribbla con sagacia tutte le definizioni che gli vengono appiccicate addosso.

Se gli dite - per il suo abbigliamento e la sua carica - che è il Robin Hood del rock vi risponderà tra il serio e il faceto: «Io come il ribelle di Nottingham? È vero, sono irriverente e trasgressivo, ma Robin Hood rubava ai ricchi per dare ai poveri, io con la mia musica rubo ai ricchi e ai poveri per dare alla mia famiglia, che è la cosa più importante per me».

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