Cronaca locale

"Lucio Fontana mi comprò un'opera e io piansi"

L'artista ripercorre la sua parabola in una personale alla Fondazione Carriero

"Lucio Fontana mi comprò un'opera e io piansi"

«Da mascotte sono diventato il vecchio saggio del gruppo: divertente vero?». Elegante e pacatamente ironico Giulio Paolini, maestro dell'arte concettuale è arrivato da Torino a Milano con i suoi 78 anni ben portati e una profondità di pensiero che accomuna solo i più grandi. L'occasione è importante: nella sede di Casa Parravicini, quattrocentesca dimora di via Cino del Duca, a un passo da San Babila, la Fondazione Carriero ospita una sua affascinante personale. «Giulio Paolini. Del Bello ideale» (da domani al 10 febbraio, ingresso libero dalle 11 alle 18) è un'indagine su un artista che è sul mercato da quasi sessant'anni: «Ho iniziato che ero un ragazzino: stavo sempre con artisti più maturi. Quando Lucio Fontana comprò un mio lavoro alla mia prima personale a Milano, mi commossi», ricorda. Da allora, era la fine degli anni Sessanta, Paolini ragiona sull'arte pura: in un contesto artistico come quello italiano spazzato da correnti continue, è rimasto fedele al suo credo. «L'arte non ha un autore, c'è solo qualcuno che la vede prima di altri». E ancora: «È il Bello che ci provoca». Per Paolini l'arte nulla ha a che fare con la realtà: deve essere irraggiungibile, indefinita, eterea. Francesco Stocchi, che ha curato la mostra accostando le opere concettuali di Paolini ad efficaci interventi scenografici di Margherita Palli, definisce questa poetica messianica. Attraverso fotografie, fogli, oggetti e disegni Paolini è «fedele vittima di un Bello ideale».

Giriamo per le sale della Fondazione Carriero: l'esposizione è scandita su tre livelli funzionali, fin nella simbologia del numero, ad illustrare il percorso di un artista ancora attivo, come dimostrano le tre opere realizzate per l'occasione. La più significativa si trova all'inizio della vista: In cielo è un parallelepipedo in plexiglass con un cielo disegnato all'interno del soffitto e delle scarpe da uomo poste sopra. «Di chi sono? Non è importante: mi interessa l'atmosfera di sospensione e attesa», ci dice Paolini mentre osserviamo l'installazione.

Siamo nella prima sezione di una mostra che si muove per temi: al piano terra troviamo ritratti e autoritratti e siccome con Paolini le cose non sono mai semplici, gli autoritratti più belli sono quelli in assenza dell'artista, come il raffinato collage che racchiude una piccola folla di creativi, tra cui Henri Rousseau «il doganiere»: «Naif? Affatto: era molto amato da Picasso. Ammiro la sua solitudine creativa, la capacità di seguire la sua rotta», commenta Paolini che si sottrae volutamente alla sua opera, perché il bello delle idee è che esistono senza chiedere il permesso (rara lezione di umiltà, la sua). Al primo piano si trovano le opere legate alla superficie, con diversi lavori anni '60 («Milano con le sue gallerie fu una città all'epoca per me importante») tra cui un nécessaire da viaggio fatto di fogli bianchi impilati («l'attesa della creazione») e una parete con un gancio («chissà, forse per un quadro futuro») e poi ancora dotte esercitazioni su forme geometriche «in potenza»: motivi decorativi, tasselli, segni grafici portati sino alla pura astrazione. La splendida sala con decoro rococò del secondo piano ospita una selezione di lavori sul mito, la bellezza classica e quella ideale, perfetto contrappunto alle Cariatidi poste in ingresso alla mostra.

Si esce ringraziando Paolini per la pausa bellezza gentilmente offerta.

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