Cronaca locale

Il milanese che ha rilanciato la regina delle bici

Ha portato la Milano a pedali fino al cuore di Steve Jobs. «Erano gli anni Ottanta, sfrecciavamo con una Cinelli Laser nera nei corridoi della Apple, a Cupertino. Era il non plus ultra delle biciclette, e Jobs la volle per se», ricorda. E sempre una Laser, a scatto fisso, fu battuta pochi mesi fa a 47mila dollari in un'asta benefica di Sotheby's voluta da Bono degli U2.

Lui è Antonio Colombo, 65enne imprenditore e appassionato d'arte, fondatore dell'omonima Galleria di via Solferino (nel 1998) e patron di Cinelli (dal 1978). Milanese fino al midollo («Leggo e rileggo Gadda, sono una cozza attaccata a questa città», confessa), ha messo tutto il suo mondo nelle biciclette. L'eccellenza tecnologica unita all'arte, perché su quei telai e su quelle ruote lenticolari hanno lavorato tanti big: Keith Haring, Alessandro Mendini, Maurizio Cattelan, Mario Schifano. «Con Mario eravamo amici. Adoravo il suo pop domestico, i quadri colorati. Faceva un grande quadro ogni 5 o 6 anni e poi si ripeteva per generosità».

E qui viene fuori il Colombo artista. «Ma non mi piace dire che ho messo l'arte nella bicicletta. La bici è sempre stata arte, un concentrato di valori simbolici e letterari. Basta leggere Buzzati e Brera». Free cycling in a free world, recita uno dei claim Cinelli più azzeccati. Già, ma un mondo libero da che cosa? «Libero dalle automobili, dai pregiudizi... veda lei, in fondo anche le parole sono un fatto progettuale, rivelano un'idea». E pesano, specie per chi ha sudato sui vocabolari fin da ragazzo, sui banchi del prestigioso liceo ginnasio Carducci, dietro piazzale Loreto: «Erano anni caldi, entravi in classi tappezzate di foto di Mao e del Che. Quelli di destra arrivavano in Zündapp, quelli di sinistra in metro. Io amavo la bici, che allora era don Camillo e Peppone, un mezzo un po' sfigato, mi nutrivo di fumetti e copertine di dischi, ascoltavo i primi Led Zeppelin. Di notte captavo Radio Luxembourg. Avevo le antenne sempre alzate, ogni approfondimento era faticoso».

Come fare del buon rock. E come pedalare. «La bicicletta è sempre stata con me. Molto giocò l'azienda metallurgica di famiglia, che produceva tubi per telai - ma, fino agli anni Cinquanta, anche “anime” per arredi razionalisti -. Presto fondai la Columbus, che si distinse subito per l'innovazione». Con un occhio di riguardo al design. «Era una Milano dinamica, artisticamente fertile. Conoscevo Cino Cinelli, pioniere del ciclismo poi diventato imprenditore, e il salto alla guida della storica azienda fu breve. La bici era vista come un mezzo di trasporto o, all'estremo opposto, uno strumento di competizione sportiva. Le vittorie non ci sono mai mancate, i grandi ciclisti nemmeno, ma io cercavo un'altra via, quella dell'espressività più autentica».

Altrimenti non si spiegherebbe il rampichino, che la Cinelli sdoganò in Italia anticipando i tempi. O l'ossessione di Colombo per le bici monorapporto ideali per smarcarsi nel traffico, icone della subcultura urban. C'è chi le ha definite un prolungamento del corpo, ma lui è già andato oltre e ha messo in Galleria un telaio superleggero innervato di vasi sanguigni disegnati da un artista inglese. Il nome? Blood brothers, fratelli di sangue. Se le parole hanno un senso..

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