Cronaca locale

"Milanin Milanon", due città: una va, l'altra si sta staccando

Da una parte grandi aziende e quartieri alla moda, dall'altra ghetti e degrado. Come scriveva De Marchi

"Milanin Milanon", due città: una va, l'altra si sta staccando

C'è un città che va veloce, che sembra già uscita dalla crisi, che vive, lavora e cresce, non solo urbanisticamente, strizzando l'occhio alle grandi capitali mondiali e c'è n'è un'altra che arranca, che fatica ad integrarsi, che si mette in coda e s'azzuffa per un pasto caldo o un posto letto. Forse è sempre stato così. Ma adesso si nota di più. Da Gae Aulenti, nuovo cuore di una Milano sempre più glamour ed internazionale, a via Morgantini, tanto per fare due esempi, dove il via vai di popoli, etnie e religioni non è una passerella ma un'integrazione tutta da inventare. Due mondi, due velocità come si dice in questi casi. Milano «vicino all'Europa, che ride e si diverte...» e che si candida a diventare la nuova City quando Londra farà per fatti suoi. Milano che dopo Samsung, Microsoft, Sky accoglie anche Amazon in un «business district» da 17.500 metri quadri in viale Monte Grappa alle spalle di Eataly, nell'ex edificio anni '70 della Tecnimont che Gbpa Architects sta completamente restaurando. E sono posti di lavoro, sono investimenti, è il prestigio di una città in corsia di sorpasso che attira capitali e grandi aziende. Expo è stata forse la miccia ma il terreno era fertile. Dalle Fiere ai Saloni che, trainati dal Mobile, sono diventati i questi anni un business da tutto esaurito e hanno invaso i quartieri con mostre, eventi, appuntamenti. E poi moda e design, altro valore aggiunto che creano immagine ma anche lavoro, start-up come si dice adesso. E così Porta Nuova diventa il quartiere degli affari e della tecnologia, il luogo perfetto scelto da chi vuole metter su «bottega», scelto dai colossi dell' e-commerce che si mettono in scia a Google Italia che due anni fa aveva firmato con Hines Italia il contratto d'affitto per 5mila metri quadrati e ha concentrato lì tutti i suoi i dipendenti milanesi. Poi Samsung ha inaugurato il grattacielo «Diamantino» e Microsoft ha preso possesso di cinque piani della Fondazione Feltrinelli dove, in perfetto stile americano, è stata inaugurata la prima azienda aperta al pubblico, dove i clienti vanno dove vogliono e i manager non hanno scrivanie. Effetto calamita, o effetto domino al contrario che tra poco all'ex scalo Romana porterà il nuovo quartier generale di Fastweb, in piazza Cordusio nell'ex palazzo delle Poste i «caffettieri» di Starbucks e in Duomo la terza boutiqe di Tiffany. «Grazie per questi atti di fiducia verso la nostra città- ha detto pochi giorni fa il sindaco Sala all'inaugurazione della sede di Microsoft- La nostra ambizione è di avere una città che sia apre al mondo, internazionale e contemporanea e che non dimentica però la sua anima di solidarietà». E la sfida vera è questa. C'è una città che scappa via e un'altra che fatica a starle dietro, c'è un distacco enorme tra chi tira il gruppo e chi rischia di staccarsi. C'è una metropoli che deve fare i conti con interi quartieri dove moda e design non si sa neppure cosa siano. Dove Milano fa fatica a riconoscersi. Dal Corvetto a viale Padova, da via Morgantini a piazzale Segesta a via Paravia degrado, sicurezza e integrazione sono emergenze sul piatto che si mette in tavola ogni giorno. Un piatto ricco. Dove c'è posto anche per un'emergenza profughi che il nuovo prefetto Luciana Lamorgese sembra voler affrontare sul serio. Dove c'è spazio per le risse quasi quotidiane in Stazione Centrale, per le bande di latinos che imperversano e per i bivacchi di disperati invisibili sotto i ponti delle tangenziali. Nuovo e vecchio. Nuove realtà che stridono con la corsa di una città che guarda al mondo e che si sommano con vecchi mondi e vecchi nodi che di volta in volta tornano al pettine. Come quello di molti appartamenti delle case popolari dove, tra occupazioni e subaffitti nessuno, neppure in Comune, sa di preciso chi abbia le chiavi o come quello dei centri sociali da sempre tollerati e autorizzati a fare ciò che alla maggiorparte degli altri cittadini non è concesso. E allora un po' torna in mente il «Milanin Milanon», la lettera che Emilio De Marchi scriveva a Carlo Porta chiedendogli, nel secolo scorso, se gli piacesse ancora la sua città che stava cambiando: «Questo Milano Milanone è un cittadone... Ti sembra Carlino che questo nostro Milano sia poi nostro? Quel Milanino dove si parlava milanese, quella lingua sincera e cordiale che adesso si vergogna di parlare, tace e si rintana in una angolo come se Milano fosse Turchia. Dove va, el mè Carlin, quel noster Milanin del nostre temp?». La domanda vale un po' anche oggi.

Perchè ci sono due città che vanno ognuna per conto proprio e, come quei satelliti che finito il loro compito vengono espulsi e vagano nello spazio, rischiano di staccarsi.

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