Cronaca locale

Milano e storie d'acqua Una favola antica che arriva fino ad oggi

Un libro ripercorre la storia di fiumi, laghi e canali che attraversano la città e i dintorni

Stefano Giani

L'acqua è un tutt'uno con Milano. E quando spuntarono conchiglie fossili in uno scavo necessario per costruire un pozzo nei pressi dell'Arena, si ebbe la conferma che la città non galleggiava solo su una laguna sotterranea ma che un tempo - lontano, lontanissimo - qui c'era il mare. Fu poi la geologia, prima ancora della storia, a confermare quelle che non dovevano essere soltanto semplici illazioni. Come poi i flutti si ritirarono, lasciando il posto a una pianura sulla quale sarebbe sorta la metropoli, è una folta letteratura a raccontarlo. E oggi alla bibliografia che fa di Milano una capoluogo acquatico si aggiunge un volume di Gabriele Pagani Storie d'acqua (16 euro) che tuttavia non si limita a raccontare i mille perché dei Navigli e dei fontanili. Il mitico lago Barili tra Fombio e Guardamiglio, al confine con l'Emilia. O il Gerundo che era talmente esteso tra il Lodigiano e il Cremonese da indurre molti a definirlo un mare.

E così il fascino della metropoli che galleggia e s'interroga sulla riapertura dei Navigli, ventilata ma ancora lontanissima da accogliere, diventa un tema molto più che d'attualità. Anche perché l'acqua non smette di far parlare di sé nemmeno d'estate quando le esondazioni causate dalla pioggia torrenziale riportano in primo piano gli straripamenti del Seveso. E proprio quest'ultimo, come il Nirone e la Vepra, in parte navigabili e in parte utilizzabili ai fini di colture e irrigamento, diedero da sempre l'impressione che Milano fosse stata scelta per la sua posizione come la regina di un mare primordiale, destinata a dominare quelle acque che ne avrebbero connotato morfologicamente il territorio per tutta la sua esistenza.

Canali e fiumi ne accompagnarono i secoli e il mito. Servirono per lavorare e non soltanto per l'agricoltura. Grazie a loro arrivarono nel centro della metropoli i barconi che trasportavano i marmo di Candoglia per la costruzione del Duomo e tracce dell'acqua sono rimaste tuttora in una metropoli che vive all'asciutto. Via Laghetto era l'area dove approdavano i barconi. La Vettabbia ricorda uno di questi canali che attraversavano i campi alla periferia giungendo fino al cuore della città. Convergendo e divergendo per poi tornare a ricongiungersi in infinite diramazioni dello stesso letto. «Diresti che tra questi meandri sinuosi emergono cori di ninfe o danze di fanciulle» secondo le parole di Petrarca che a lungo qui visse e si lasciò sedurre dallo charme oscuro di una città che molti continuano a voler respingere. Toccò poi al genio di Vinci cimentarsi con l'idraulica.

Nacquero le chiuse e un sistema di regolamentazione dell'afflusso idrico, destinato a finire in disuso e abbandono. L'acqua rimase la risorsa più preziosa fuori città, ma un ingombrante inquilino in centro. Così negli anni Trenta del Novecento i suggestivi canali lasciarono il posto alle strade e scomparvero nel sottosuolo, interrati da una forma di progresso che ora bussa di nuovo alla porta.

Un'acqua che non ha mai smesso di scorrere.

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