Cronaca locale

Musocco, la metropoli dei morti dimenticati

Era il bosco dei briganti. Oggi vi abitano mezzo milione di anime Evita e il Duce riposarono qui tra partigiani, ebrei e repubblichini

Profuma di folla, il tempio dell'assenza. Eterna immensità di «ei fu». Oltre mezzo milione di persone oggi abitano quel silenzio. Perpetuo. Da dove ogni tanto qualcuno trasloca. Seppur non di propria iniziativa. In fondo, anche la morte è vita. E nulla finisce per sempre. Perché non si muore davvero finché esiste al mondo qualcuno che ricordi. E il segreto dell'immortalità è un pensiero.

Insolente. Vigliacco. Dolce.

Un tempo lontano era un bosco. La Merlata, si chiamava. Era il nome del torrente che lo attraversava. E, dopo lunghi chilometri, si sposava con il Lambro. Una terra inospitale. Fatta di acquitrini. Paludosa. Patria del nulla e di briganti. Il Trentuno. Il Girometta. Lo Zopeghetto. Il Ferracino. Rigoletto. Scagnozzi al soldo di Giacomo Legorino e Batista Scorlino. Rapinavano chi vi si arrischiava. Lo uccidevano. E si spartivano bottini, fatti di fiorini e scudi d'oro.

Alla lunga quei ricercati furono catturati. A giudicarli fu il segretario del Senato, Giorgio Visconti. E a tramandare quelle gesta assassine pensò Giulio da Modena, cavaliere del Capitano di giustizia. Raccontò di un processo in cui Legorino rinnegò se stesso. Ma confessò dietro tortura. E la tortura fu il suo supplizio. Trascinato da un cavallo e poi legato alla ruota. Non si arrese. Allora gli tagliarono la gola dietro supplica del prete. Perché non avesse a soffrire oltre.

Era il 1566. Ma la fama gli sopravvisse. E, in una celebre poesia, il Porta - provocatoriamente - paragonò i peccati di quel monello del Giovannin Bongee ai delitti di on Jacom Legorin . Anche la Merlata resistette. Per altri tre secoli abbondanti. Nel 1884 però il bosco fu cancellato. La scure piegò alberi, ma il verde rimase. Ci vollero undici anni e, al Monumentale, si aggiunse il cimitero Maggiore. I milanesi lo ribattezzarono subito. Musocco. Era il nome del comune a cui apparteneva quel fazzoletto di terra nella frazione di Garegnano, alle spalle della certosa. Per un camposanto che nasceva, quattro ne morivano. Chi riposava al Ticinese, Magenta, Garibaldi e Porta Vittoria avrebbe assaporato la pace del Maggiore. Il trasloco durò da ottobre 1895 al giugno successivo. L'ultimo viaggio di quelle anime ebbe insomma una postilla. Il treno. In città fu etichettato cinicamente. «La Gioconda». Ma non per tutti fu una culla di quiete.

Musocco nasceva come la dimora eterna del popolo. I morti qualunque. Dimenticabili. Ricordi a numero chiuso. Per pochi intimi. A piangere era la massaia. Sulla tomba del suo buon marito, passato anzitempo ingiustamente nel numero dei più. Nemmeno la Grande guerra che inondò l'Italia del sangue di 650mila giovani vi portò i suoi caduti. Le lapidi di quei giovani sono al Monumentale. Fu il secondo conflitto a cambiare le sorti del Maggiore. E a fine aprile del '45, nottetempo, si presentò Renzo Zaccaro, un ragazzo di 22 anni, su un vecchio camion della Croce Rossa. Nascondeva tre bare. E, da piazza Loreto, attraversò tutta Milano. Con lui padre Gregorio e un caporal maggiore. Furono dirottati al «Campo dell'onore». Entrando, a destra. Le fosse erano già pronte. Benito Mussolini. Claretta Petacci. E Achille Starace. Non restarono un minuto di più in balìa della folla inferocita.

Sulla lapide del duce stava un numero, 384. La donna fu ribattezzata col nome fittizio di Rita Colfosco. Il gerarca conservò il proprio. Vi restarono un annetto. Il corpo dello statista fu trafugato da una pattuglia di nostalgici. Finì alla Certosa di Pavia e, nel '57, fu riconsegnato alla famiglia per essere tumulato a Predappio, dove tuttora riposa. Claretta approdò a Roma, al Verano. Starace a Gallipoli. Il gerarca Alessandro Pavolini, segretario del Pnf, appeso con gli altri a testa in giù, vi riposa tuttora. Ma la vergogna potè più del tributo.

«Ai vivi si deve il riguardo, ai morti la verità». Sostenne Voltaire. Ma non fu così. A Musocco, di notte, arrivò anche Evita Peron. Sulla tomba scrissero Maria Maggi. Mentite spoglie. Era il 1955. Il governo del marito era caduto poco dopo che lei se ne andò. In Argentina si temeva il culto della donna che aveva rappresentato una nazione. Ed Eva Duarte giunse a Milano. Vi rimase fino al 1971, quando la situazione si tranquillizzò. Ma nessuno portò mai fiori sulla tomba di un mito, nascosta dietro una sciura . Anonima come altre.

Per me si va nella città dei defunti dimenticati. A molti sembrò eccessivo quel campo dell'onore dove giacevano i repubblichini. E tuttora questo Paese, mai in pace con il suo passato e la sua Storia, storce il naso. Così ne fu creato un altro, il 64, intestato alla gloria. Vi trovarono posto corpi meno famosi. Uniti però da un'appartenenza. Erano e sono i partigiani. Mancava la terza anima di quel conflitto. E nacque la sezione ebrea. Becky Behar era una ragazzina, figlia di padre turco, che grazie all'extraterritorialità sfuggì ai rastrellamenti. Sorte talvolta peggiore del martirio. Fu l'unica testimone sopravvissuta all'eccidio nazista di Meina. In quello che allora era l'hotel Vittoria. Nome beffardo di un'infamia. L'episodio divenne un film di Carlo Lizzani, ma la Behar non gli perdonò mai di non averla consultata. Becky perse il fidanzato. La speranza. E la fiducia nella giustizia. Accusò il regista di aver stravolto i fatti. Non morì in pace. Non ebbe il rispetto che si deve ai vivi. Nè la verità da consegnare ai trapassati.

A Musocco la pace è per pochi. Non ne trovò molta nemmeno Delio Tessa, scrittore antifascista. Decise di lasciare questa valle di lacrime nel settembre del '39. E si risparmiò la guerra. Volle essere sepolto al Maggiore, ma alla sua volontà si obbedì per undici anni. Nel '50 il Comune decise che Tessa era un grandissimo. E traslocò il poeta dove meritava, ma dove non voleva. Al Famedio del Monumentale. Di fronte al Manzoni. Anche per lui la sepoltura non fu l'ultimo viaggio.

Centenaria, vi giunse Tina Lattanzi, che recitò nel Gattopardo di Visconti e fu la zarina madre in Caterina di Russia . Troppo presto, invece, gli innocenti. I 44 bambini milanesi che morirono nell'affondamento della motonave Annamaria. Erano in gita scolastica all'isola della Gallinara. Al largo di Albenga. Lo scafo urtò un palo subacqueo dell'impianto fognario della città. E si inabissò. Fu una tragedia. I funerali, in Duomo, li celebrò l'arcivescovo Ildefonso Schuster. Era il 16 luglio 1947. Sulla loro lapide c'è il verso del Vangelo di Matteo. «Lasciate che i piccoli vengano a me, perché di essi è il regno dei cieli». Perfino loro però, candidi come gli otto anni che avevano, sono i morti dimenticati.

La Liberazione era trascorsa da cinque giorni ma Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, compagni di vita e di cinema, avevano una colpa che fu lavata da una raffica di mitra. L'attore aderì a Salò, lei non lo abbandonò neppure alla fine. Benché fosse incinta. Furono rapiti. Finché Pertini ordinò l'esecuzione. Morirono in via Poliziano. Fucilati alle spalle. Riposano a Musocco. La Ferida fu poi riabilitata.

La madre fece causa allo Stato e ottenne la pensione dovuta alla figlia.

Commenti