Cronaca locale

"Per ogni ora di lavoro qui un euro ai clan siciliani"

Colpo di scena al processo, un imprenditore imputato conferma le accuse: "Così finanziavamo i Laudani"

"Per ogni ora di lavoro qui un euro ai clan siciliani"

Che ieri qualcosa di grosso fosse nell'aria si era capito già alla ripresa dell'udienza dopo la pausa pranzo, grazie a uno di quei segnali che gli esperti di tribunale colgono al volo: era cambiata la distribuzione dei detenuti nelle gabbie, sintomo perenne di equilibri, alleanze, contrapposizioni. Nel processo al clan della sicurezza privata, accusato di essersi impadronito degli appalti del Palazzo di giustizia e dei supermercati Lidl, la svolta arriva effettivamente di lì a poco. Va a sedersi davanti ai giudici uno degli imputati, Giacomo Politi. E rompe il muro dei silenzi, dei dinieghi e dei proclami di innocenza che finora aveva visto compatti tutti gli accusati.

Politi dice che le cose stanno proprio come sostiene la Procura della Repubblica: i soldi rastrellati dal gruppo Securpolice, guidato dai fratelli Alessandro e Nicola Fazio, andavano in parte nelle casse di Cosa Nostra. In particolare, in quelle del clan Laudani di Catania, «braccio armato» (definizione di Ilda Boccassini) del boss Nitto Santapaola. È una accusa assai pesante, che ha fatto scattare nei confronti degli imputati l'aggravante della finalità mafiosa dei loro traffici di appalti e fatture false. Finora tutti avevano negato tutto. Politi confessa, aggiunge dettagli cruciali e incastra gli altri. Per il pm Paolo Storari è un innegabile successo.

L'imprenditore racconta al tribunale presieduto dal giudice Carla Galli che fin dal 2009 l'accordo tra i Fazio e i Laudani era chiaro: per ogni ora lavorata grazie alle commesse rastrellate al Nord, un euro doveva andare nelle casse del clan. Un pizzo senza precedenti sia nelle modalità che nell'importo, un esempio impressionante della penetrazione mafiosa nell'imprenditoria lombarda. Al tribunale, Politi riferisce che i Fazio ebbero la cattiva idea di non rispettare gli accordi presi. Nel 2014 vennero bruscamente richiamati ai loro doveri. E pagarono.

È la conferma di un passaggio che già si intuiva in alcune intercettazioni, riportate nel decreto con cui nel maggio dello scorso anno la sezione Misure di prevenzione aveva messo sotto sequestro la Securpolice. A parlare era uno degli indagati, Luigi Alecci, siciliano e pregiudicato: che «racconta di aver intimato a Fazio Alessandro il rispetto delle promesse, precedentemente fatte a persone di cui non proferisce le generalità (i nostri), relativamente a somme di denaro che lo stesso Fazio Alessandro deve consegnare giù, pena la minaccia che qualcuno, sempre da giù, possa salire: perché dopo salgono e ti danno i cazzotti...». Sono accuse che finora gli imputati e i loro difensori avevano sempre respinto.

Per ogni dieci euro pagati dal Comune di Milano per garantire la sicurezza del Palazzo di giustizia, un euro andava a finire nelle casse della mafia. Questa è la disarmante sintesi della deposizione di Giacomo Politi. Catanese di Acireale, quarantun anni, titolare di aziende e cooperative di logistica che apriva e chiudeva in continuazione, era lui secondo la Procura uno dei terminali dei Laudani a Milano. Con il clan ha contatti diretti. È lui ad accompagnare in Venezuela Omar Scaravilli, «esponente di primo piano, con ruolo direttivo, della famiglia Laudani». È lui a portare i soldi a uno dei cassieri dei Laudani, Enrico Borzi, che gli spiega che verranno usati per sostenere la moglie di un detenuto: «Perché per loro tu questi soldi che gli hai mandato sono regolari, nel senso diciamo che gli spettavano a suo marito». Poi Politi tornava al Nord, e rimetteva i panni dell'imprenditore. Ora, con la sua mossa a sorpresa, sfida i coimputati.

E il gelo con cui le sue confessioni vengono accolte nelle gabbie è il segno dell'impatto che la sua deposizione è destinata ad avere sul processo.

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