Cronaca locale

«La pistola? In tribunale da tre mesi»

Ergastolo per l'imprenditore Claudio Giardiello, che davanti al giudice ha confessato

Luca Fazzo

Era tutto chiaro fin dall'inizio. Eppure per più di un anno l'indagine sulla strage a Palazzo di giustizia si è accontentata della bugia inverosimile di Claudio Giardiello l'imprenditore fallito che il 9 aprile 2015 seminò la morte in tribunale. Ieri, a Giardiello viene inflitto l'ergastolo, come era inevitabile dopo la perizia che lo ha dichiarato perfettamente capace di intendere e di volere. Ed è lui, Giardiello, prima che il giudice pronunci la sentenza, a offrire finalmente un tassello di verità in più alla ricostruzione di quella incredibile mattina. La pistola con cui uccise il suo ex socio Giorgio Erba, il suo ex avvocato Lorenzo Claris Appiani e il giudice Ferdinando Ciampi non entrò con lui in tribunale quella mattina, imboscata in qualche modo nella borsa ventiquattr'ore. Per mesi gli inquirenti si sono arrabattati a cercare di capire in che modo l'arma avesse superato i controlli di sicurezza, e avevano anche indagato il vigilante di turno all'ingresso su via San Barnaba. Invece la pistola era in tribunale da tempo: «Da tre mesi», dice Giardiello. Da tre mesi, il piano di morte di questo ex uomo brillante - belle donne, affari, casinò - era pianificato e operativo. Il 9 aprile, tutte le tessere del piano andarono al loro posto e partì la strage.

Perché Giardiello parli solo adesso (e così poco) è ancora tutto da capire. Di certo, la sua ammissione liquida la versione cui lui stesso si era aggrappato finora per schivare l'accusa di premeditazione e quindi l'ergastolo: «È stato un gesto d'impeto, la pistola l'ho portata con me per suicidarmi in tribunale». Ieri, arrivato alla soglia della condanna, Giardiello si rimangia le sue bugie e va senza più scusanti né speranze incontro al carcere a vita.

A capire che non ci fosse altra spiegazione possibile, bastava la logica. E infatti già a una settimana dal delitto la ricostruzione corretta circolava già tra gli investigatori, come riferì il Giornale. Il 9 maggio era l'unico giorno utile per portare a termine il piano di Giardiello di punire in un colpo solo tutti i suoi presunti persecutori: l'avvocato, il socio, il giudice. Quel giorno, dunque, Giardiello non poteva permettersi il lusso di sbagliare, di venire fermato ai controlli, di veder svanire il suo folle sogno di giustizia sommaria. E l'unico modo per essere certo di non venire fermato con la pistola era presentarsi nel palazzo disarmato. La pistola era già dentro, infrattata chissà dove da Giardiello nei meandri del tribunale in una visita precedente. Ecco perché quella mattina l'imprenditore-imputato si presenta al varco di via San Barnaba così presto: ore 8,40 del mattino, quaranta minuti prima dell'ora fissata per l'udienza alla quarta sezione penale. Doveva avere il tempo di recuperare la pistola imboscata in chissà quale pertugio. E così ha fatto, freddamente, lucidamente.

L'ammissione che ieri Giardiello mette a verbale è la pietra tombale sulla sua sorte, ma lascia aperti ancora diversi interrogativi.L'assassino non spiega quando e come abbia portato l'arma in tribunale. Ed è vero che introdurre una pistola senza fretta, provando e riprovando, attendendo il momento più propizio, magari nelle ore pomeridiane quando il clima si fa più rilassato, è più facile che la mattina presto, giorno preciso, o la va o la spacca. Ma è anche vero che è possibile che Giardiello abbia avuto un complice, qualcuno che più o meno consapevolmente si sia prestato a portare e imboscare l'arma.

E soprattutto non hanno avuto risposta gli interrogativi, che la difesa di parte civile ha invano cercato di attivare, sul sistema di controlli di sicurezza del Palazzo di giustizia, dimostratosi tragicamente inadeguato.

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