Cronaca locale

Primo maggio in salsa pop Al Mudec c'è Lichtenstein

Inaugura proprio oggi la mostra del maestro newyorchese: «visioni multiple» in cento opere

Francesca Amè

Se giocassimo a individuare un'unica opera-simbolo per ogni mostra che vediamo, dopo aver visitato l'ampia esposizione che da oggi il Mudec dedica a Roy Lichtenstein, campione della Pop Art, non avremmo dubbi: scegliamo Brushstokes, una stampa che ritrae una pennellata congelata nello spazio: il gesto pittorico dimentica ogni romantico slancio, fissa sé stesso tra linee e puntini e diventa pura grafica industriale. Solo ai grandi è concessa l'ironia e Lichtenstein (1923-1997) ne fece, nel corso della sua lunga carriera, ottimo uso: la sua arte è infatti ricreazione (seppur dotta e indefessa nello spasmodico uso di tecniche sempre diverse) perché l'arte eroica, quella dei grandi maestri del Novecento, è finita. Bisogna dunque guardare oltre e cercare nuove visioni come suggerisce il titolo Roy Lichtenstein. Multiple Visions (fino all'8 settembre) della mostra ben curata da Gianni Mercurio, un percorso tematico e non cronologico di un centinaio di opere. «Apparentemente una contraddizione ci dice Mercurio, che già dieci anni fa alla Triennale aveva curato la mostra sui dipinti dell'artista newyorkese per un autore così metodico, ma ci è parso un modo interessante per accostare lavori di epoche diverse e osservare quali soggetti ritenesse più interessanti». Con una doverosa premessa, però: per Lichtenstein la forma prevale sempre sul contenuto. Tutta la sua arte è un'indagine sulla percezione visiva e sul rapporto tra uno stimolo ottico e la sensazione che ne scaturisce. Lo stile di Lichtenstein, il «re del fumetto su tela», è riconoscibilissimo e l'esposizione, complice un riuscito allestimento optical, ha scelto di concentrarsi sulla forma stampata. Grande assente (giustificata) è la pittura: sono stampe, grafiche, sculture e arazzi a spiegare il «metodo Lichtenstein» del printmaking, cioè della creazione di opere multiple a stampa partendo da un disegno autografo. «La stampa è l'idea del Pop», dirà l'artista: sappiamo quanto la sua grafica sarà poi imitata, a volte banalizzata. Semplice invece Lichtenstein non lo è affatto: lo evidenzia la mostra sottolineando gli elementi di diverse culture che confluiscono, previa destrutturazione, nei suoi lavori. L'esposizione si apre sulla rivisitazione quasi favolistica di elementi del Western americani poi passa agli still life, dove la poetica degli oggetti è quella di portare tutto al grado zero dell'espressione (niente emozioni, niente sensazioni), in un proliferare di specchi e di finestre. Inabitati e inanimati sono anche gli interni domestici - pop, ma quasi metafisici mentre sui comics si esercita il massimo della sperimentazione formale. La sezione dedicata alla rappresentazione della figura femminile è doverosa: ci sono sì le arcinote donne piangenti, ma anche sofisticati nudi saffici che la dicono lunga sull'impatto del femminismo anni Settanta nella sua arte.

Lichtenstein è colto e si confronta con l'Avanguardia del Novecento: alcune rivisitazioni in mostra (del Seminatore di Van Gogh o delle Ninfee di Monet) ne sono la dimostrazione. Il percorso si chiude sui paesaggi cinesi del 96, realizzati con la tecnica benday dots, puntini tipografici di diverso colore, e su quelli realizzati in Rowlux, una plastica lenticolare che muove' il colore sulla tela, perfetta per creare le onde del mare o le nuvole in cielo. Tuttavia, è sull'astrazione che Lichtenstein si gioca la sua miglior partita.

Con stampe e sculture geometriche volutamente imperfette, mette in scena la parodia dell'astrattismo.

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