Cronaca locale

Quando Milano alzò la cresta e cacciò da casa gli stranieri

Storico anniversario dei moti iniziati il 18 marzo 1848. Le truppe di Radetzky sconfitte dalle virtù del popolino

Quando Milano alzò la cresta e cacciò da casa gli stranieri

Quando trovarono un soldato austriaco a terra, senza vita, la prima idea fu quella di frugargli nelle tasche. Ne uscì una mano mozzata, evidentemente di donna, con molti anelli alle dita. Il morto era uno sciacallo in divisa. Le Cinque Giornate furono soprattutto questo. Una lotta senza quartiere, cominciata così come sarebbe finita. In una libertà solo apparente. Dapprima anelata. Poi solo illusoriamente raggiunta. Perché se quella primavera - secondo Carlo Cattaneo - doveva essere l'inizio di tutte le primavere e se i milanesi riuscirono davvero a cacciare gli austro-ungarici di Radetzky, di lì a poco se li sarebbero rivisti tornare in grande spolvero. Solo il Risorgimento - quello vero - riuscì poi a unire il Lombardo-Veneto al Piemonte.

Insomma non fu una vittoria di Pirro, ma poco ci mancò e il Maresciallo se lo sarebbe portato via solo la morte, di lì a dieci anni. Allora, nel 1848, le energie dell'ottantaduenne ufficiale avevano temperamenti inconciliabili. Da un lato si limitarono a trasformare la lavandaia Giuditta Meregalli da amante che gli aveva dato quattro figli in badante di lusso. E quando uno dei suoi molti rampolli - furono dodici in tutto - dietro l'arroganza del cognome, andò a far chiasso in Duomo durante una funzione religiosa e si prese un sonoro ceffone dall'arciprete, l'austero Radetzky se la rise di gran gusto. Chiese scusa al piccato reverendo. E assestò un gran calcio nel sedere al presuntuoso.

Dall'altro lato la tarda età non aveva intenerito l'anziano governatore, boemo nel carattere e nel gelido cuore, rispettoso della sua parola, ma inflessibile nell'ordinare «pubbliche bastonature», sentenze capitali e lustri di carcere. Oggi, di lui, resta una marcetta, composta da Johann Strauss proprio in onore del rientro austriaco in città dopo i moti del '48. E a ogni Capodanno l'ignoranza accompagna quelle note con scanditi e ritmati battimani. Anacronistici. Anti-italiani. Storica stonatura. Eppure...

Eppure fu il vizio a scoperchiare l'odio dei milanesi per l'invasore. Questione di tasse e di balzelli. Vienna aumentò le imposte su sigari e tabacco e la gente smise di fumare. La controffensiva prese la forma di un carico esorbitante di sigarette e il conseguente ordine ai militari di farne sfoggio davanti ai popolani, irridendoli e solleticando il desiderio. Ci fu perfino chi ne fumava due contemporaneamente. Una per mano. Finì a insulti e bastonate, ma la città ebbe chiara l'impressione che servivano nervi saldi. E persero il ritegno. La sommossa riuscì nell'intento impossibile di coalizzare i mazziniani di Luciano Manara, i democratici riformisti di Cattaneo e l'aristocrazia del potestà Gabrio Casati, un uomo per tutte le stagioni che stavolta decise di prender partito con i suoi concittadini. E il «miracolo» di vedere i nobili accanto al popolino si compì.

La mente dell'insurrezione abitava nelle patrizie sale della pasticceria Cova, all'angolo tra via Verdi e corsia del Giardino, oggi intestata al Manzoni che all'epoca - vivo e vegeto - aveva 63 anni ed era lontano dal morire. Tantomeno dall'avere una via a suo nome. Pardon, cognome. Antonio Cova era un tipo austero, aveva sorpassato i cinquanta e dal 1817 faceva l'offellee. Non gli parve vero di ospitare quei signori che l'avevano giurata agli austriaci, lui, nato nel '93, che aveva combattuto con le truppe napoleoniche. E quando una pallottola colpì la specchiera del suo locale non se ne dolse più di tanto. Anche quella, in fondo, era guerriglia.

Radetzky li credeva al Broletto, i capi della rivolta. E presidiò lo stabile. Loro invece bazzicavano il pasticcere da dove facevano partire gli ordini per poi trasferirsi, alla chiusura, nella vicina via Bigli. Prima al civico 9 poi al 10, perché meglio difendibile. Una targa ricorda la sede dei cospiratori, mentre le truppe austro ungariche si erano asserragliate al Castello e i poveri facevano le barricate. Mura di materassi, rigorosamente bagnati, piazzati in prossimità delle porte cittadine, attutivano le pallottole, evitando che il fuoco incendiasse quelle improvvisate trincee.

Al Ticinese la Luisa, che di cognome faceva Battistotti Sassi - e anche lei come don Lisander oggi ha una via - rubò dalla tasca di un soldato croato l'arma di ordinanza. Gliela puntò contro e fece cinque prigionieri. Quell'uomo e altri quattro che erano con lui. Abitava con il marito in via Vettabbia al 3645 e quella mattina raggiunse la caserma con il quintetto di «trofei». Dopo le V Giornate sparì a San Francisco, dove traslocò con il figlio e di sé lasciò che si perdessero le tracce. Virtù plebea.

E non fu l'unica. Augusto Anfossi fu ucciso guidando l'assalto al palazzo del Genio dove avevano riparato le truppe del Maresciallo. Gli spararono dalla finestra di fronte e, poche ore dopo essere spirato in quella strada che oggi è il Monte di pietà, Milano veniva liberata. Lui non lo seppe mai, ma uno storpio - Pasquale Sottocorno - arrivò zoppicando da par suo, buttò qualche balla di paglia contro il portone poi tornò indietro. Dalle finestre i militari lo guardarono incuriositi. Lui andò a prendere un fiammifero e incendiò il portone. Un disabile aveva aperto ai patrioti la conquista del palazzo.

Milano ce l'aveva fatta.

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