Cronaca locale

Quando «Mou» Cameroni stregava l'Europa

di Oscar Eleni

N on sembra il momento, visto come va Josè Mourinho, ma per le antiche scale che portano al campo Kennedy sentiamo, vediamo Gigi Cameroni, grande giocatore, stupendo manager del batti e corri. Nessuno più di lui ci ricorda un allenatore speciale. Il suo mondo era il baseball, la sua trincea era al vecchio campo Giuriati, il suo castello per quel gioco che i militari americani avevano fatto vedere le prime volte davanti alla stazione Centrale.

Dalla casa base Cameroni guardava il suo mondo in una città che sembrava dominare in tutto. Al Giuriati c'era il grande rugby dei Taveggia, dell'Amatori in maglia bianca, del Milano a strisce orizzontali biancorosse, ma c'era anche l'Europhon delle meraviglie che lui si era inventato con zio Ugo Cossu, impegnata a far soffrire l'Inter di Giancarlo Mangini, genio del baseball e dei cruciverba che faceva impazzire i blasonati del Gigi mattatore. Dualismo che alimentava il fuoco, come nel calcio, nel basket. Milano aveva davvero qualcosa di speciale, adottava campioni per ogni sport. Al Giuriati la batteria lanciatore ricevitore del terzo scudetto era composta dal divino Giulio Glorioso, lanciatore friulano diventato grande a Roma, e dal ricevitore Gigi Cameroni, nato ad Abano Terme nel 1932. Ne aveva già vinti due fra il '58 e il '60, ne avrebbe conquistati altri cinque, oltre a tre coppe dei Campioni. Al Giuriati la fantasia, al Kennedy lo squadrone dei Balzani, Bob Gandini, Goldstein, del Novali che a Gigi chiedeva «vita vita» in prima base quando la squadra sembrava fiacca e allora arrivava il momento per le smorzate di Vinassa De Regny o per la fantasia di Cavazzano.

Grandi famiglie, grandi rivalità, belle avventure. Quando fu consegnato finalmente il Kennedy nel 1964 sembrava davvero di aver trovato il paradiso, non sapevano che dopo la loro epopea lo avrebbero lasciato andare in rovina. Il baseball che aveva conosciuto la passione di Van Zandt, poi preparatore atletico anche del Milan, dopo essere stato allenatore della nazionale di basket, di Jimmy Strong, la lippa aggiornata dagli studi di Mario Ottino, il dottor Ott che da corrispondente dei giornali americani era diventato il padre del gioco a casa nostra.

Bella Milano con i suoi campioni. Certo adesso viene qualche brivido sapendo che sono rimaste soltanto tre grandi realtà, Milan, Inter e Armani. In quei giorni tutto sembrava diverso, indistruttibile, aspettando che crescessero altri fiori, cominciando dalla grande pallavolo nella polisportiva che Capello curava per la nobil casa rossonera.

Sapere che il Kennedy può tornare a vivere davvero fa sperare che torni presto una squadra di Milano nel campionato di baseball dove anche gli eterni nemici di Nettuno non vedono l'ora di riscoprire un Barbetta (Goldstein) e un Cammaroni (Cameroni) come li accoglieva la tifoseria quando scendevano al Sud con la casacca dell'Europhon. Lo abbiamo vissuto, respirato il Kennedy dove Imbastaro, caporedattore storico della Gazzetta dove le "varie" avevano un regno, tutelava il gioco e la sua storia anche affidandosi ad un giovane praticante.

Nessuno sa quando torneranno le rose di un tempo, ma da qualche parte bisogna pur cominciare e il Kennedy è un tempio dove si muore dal caldo a Milano in estate, ma è una casa che il baseball si è meritato di riconquistare. Speriamo

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