Cronaca locale

La rabbia del quartiere: "Fortunato a scappare. Noi pronti a linciarlo"

Fiori e peluche per ricordare il bimbo ucciso dal padre rom nella casa dell'Aler occupata

La rabbia del quartiere: "Fortunato a scappare. Noi pronti a linciarlo"

«Era un uomo strano, diverso da noi. Sembrava quasi si sentisse il migliore di tutti o forse, chissà, visto quello che è successo, il suo era un modo per nascondere un disagio profondo. Parlava appena, il minimo indispensabile, lui e la moglie se ne stavano sempre per conto loro. Meno male la polizia è arrivata per prima e l'ha portato in carcere: se capitava nelle nostre mani non ne usciva vivo. I bambini sono angeli, i bambini non si toccano. E uno che uccide il figlio non merita di vivere».

Scuote la testa e mostra il pugno Miron Santiago Feraru, 23 anni, serbo croato disoccupato («fino alla settimana scorsa lavoravo in una ditta che produce compensato, ma poi non avevano più bisogno e ora sto cercando qualcos'altro da fare») venuto da Rho per il secondo giorno consecutivo davanti allo stabile Aler di via Ricciarelli 22. Il giovane dice di conoscere Aljica Rhustic, il 25enne che nella notte tra martedì e mercoledì, in preda a una rabbia tanto sconfinata quanto senza ragione, ha ucciso a botte il penultimo dei suoi cinque figli, un bimbo di due anni. Quindi all'alba Rhustic è scappato ed è stato arrestato qualche ora più tardi dalla squadra mobile in un appartamento di via Manzano, al Giambellino, dove si era nascosto con le due figlie lasciando la moglie Sylvia, una connazionale 23enne che è in attesa del suo quinto figlio, insieme al piccolo cadavere nell'appartamento di via Ricciarelli occupato abusivamente nemmeno due mesi prima al piano rialzato.

Miron si sofferma a leggere i fogli con dediche, grossi cuori rossi e pensieri teneri appesi dalla gente del quartiere alla ringhiera del palazzo, guarda a lungo i fiori e i pelouche appoggiati al muretto dell'abitazione dov'è avvenuto quell'omicidio figlio dell'abuso di droga, ma anche del degrado e di un profondo malessere esistenziale. Poi quasi viene alle mani con un gruppo di romeni arrivati dal Giambellino e che, riconoscendolo, dopo avergli stretto la mano per salutarlo, gli dicono senza mezzi termini: «Noi siamo zingari come voi, ma non le facciamo queste cose. Il tuo amico diceva che lui era uno zingaro croato, faceva il superiore, e guarda cosa ha combinato, ha ammazzato suo figlio». Miron non replica, traduce per noi quel breve ma intenso scambio di parole. Poi è come se si risvegliasse all'improvviso e allontanandosi dai romeni, muove le mani e continua a parlare in italiano.

«Molti di quegli uomini magari non ammazzerebbero i loro figli, ma non esitano a picchiare le mogli. Aljica? Non lo vedevo da tanto tempo, non so in che rapporti fosse con sua moglie, non si parlava mai di queste cose. Ma non ditemi che lo faranno passare per pazzo, stava benissimo - aggiunge battendo l'indice contro la tempia e facendo no con il capo - Non dicano che è malato di testa, drogato sì, forse. Mi sento esplodere, impotente, scioccato. Sapevo che la sua famiglia, come la mia, è originaria di Zagabria, per questo ci siamo incontrati più volte con altri connazionali al Lorenteggio. Chissà perché quando sei straniero e una persona viene dal tuo stesso Paese, non pensi mai possa fare una cosa del genere, uccidere un figlio, un bimbo piccolo.

Quando se ne renderà conto vedrete che quello si ammazza».

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