Cronaca locale

Racket dei furti in Centrale La tangente a due poliziotti

Borseggi ai turisti, arrestati 23 rom Coppia di agenti ai domiciliari: chiedevano la percentuale sui colpi

Cristina Bassi Luca FazzoQuel giorno, il 10 ottobre 2014, i rom non avevano rubato abbastanza da soddisfare la voglia di quattrini dei due poliziotti che avrebbero dovuto dare loro la caccia, e che invece li proteggevano e li taglieggiavano: così vennero portati in Questura. E qui vennero trattenuti con la forza fino a quando i loro familiari non si presentarono in via Fatebenefratelli a versare il riscatto per la loro liberazione: tremila euro, consegnati direttamente ai poliziotti all'interno degli uffici della Questura.È questo il passaggio più indigesto dell'ordinanza di custodia eseguita ieri dalla Mobile e dalla polizia ferroviaria, che ha portato in carcere ventitré rom, accusati di essere vertici e manovalanza di una organizzazione che per un anno, prima e nel corso di Expo, ha preso nelle sue mani il racket dei furti all'interno della Centrale, borseggiando e svaligiando centinaia di viaggiatori, e impedendo con la forza a qualunque altra banda o singolo ladro di «colpire» all'interno della stazione. Un anno di pedinamenti ha documentato l'efficienza quasi militare dell'organizzazione, anche quando l'introduzione dei gate d'accesso ai binari ha costretto il racket a concentrare gli agguati nella zona delle biglietterie e delle entrate. Alla testa dell'organizzazione, una donna che in teoria doveva stare agli arresti domiciliari, Sutka Sejdic, e il suo compaesano Omer Cismic, detto «Al Pacino»: una delle «gole profonde» dell'inchiesta, racconta che per poter alleggerire anche lei qualcuno in Centrale doveva versare alla banda una quota fino al 18 per cento. Controllo del territorio, organizzazione verticistica: sono queste le caratteristiche che hanno portato il pm Antonio D'Alessio a formulare a carico dei 23 rom serbo-bosniaci individuati dalle indagini anche l'accusa di associazione a delinquere. Che però sbiadisce davanti al capitolo più doloroso di questa indagine: quello che ha per protagonisti «Dilò» e «il ragazzino», ovvero i poliziotti Cosimo Tropeano e Donato Melella: due sbirri veri ed esperti, in servizio da anni alla sezione antiborseggi. Cioè, proprio quelli che dovevano tenere d'occhio le bande di scippatori che infestano la stazione, e che invece moltiplicavano il loro salario proteggendo e taglieggiando i ladri anziché arrestarli, e arrivando persino a impedire alle vittime di recuperare il maltolto. Se le accuse saranno provate, dice il loro capo Alessandro Giuliano, dirigente della Squadra Mobile, siamo davanti a un caso di «tradimento», perché emerge non «un momento di debolezza» ma un «comportamento sistematico». Mentre il questore Luigi Savina, annunciando la sospensione dal servizio dei due imputati, dichiara che «la polizia ha mostrato di avere in sé gli anticorpi». E si scopre che per costringere le nomadi a versare i soldi, «Dilò» e «il ragazzino» usavano anche il più odioso dei metodi, la minaccia di sottrarre loro i figli.

Eppure il giudice preliminare respinge la richiesta del pm di spedire in carcere i due poliziotti e concede loro i domiciliari, confidando nel loro «autocontrollo».

Commenti