Cronaca locale

Scatta 20mila foto ai ciclisti: "Date l'ok e apro una mostra"

In 8 anni di immagini il racconto della città che pedala Chi sbuffa, chi sorride e chi tiene il suo ombrello aperto

Scatta 20mila foto ai ciclisti: "Date l'ok e apro una mostra"

Elenco delle cose che si possono fare pedalando per Milano, desunta dall'opera un po' folle di un tipo che si fa chiamare Urcalagiovanna e che negli ultimi otto anni ha fotografato ventimila ciclisti in giro per la città.

Si può fumare la pipa.

Si può portare una scala.

Si può portare una grossa cassa acustica.

Si può telefonare (molti) e chattare (meno).

Si può tenere l'ombrello aperto e mangiare il gelato (non in contemporanea).

Si può andare senza mani.

Si può tenere il cane nel cestino.

Si può sorridere.

L'unica cosa che in ventimila scatti non c'è mai e che una volta era la più ovvia: si può portare la ragazza sulla canna.

Urcalagiovanna si chiama in realtà Giovanni Aloisi, non si sa come abbia cominciato però è evidente che la faccenda gli ha un po' preso la mano. Di giorno e di notte, col sole e con la pioggia, ha piazzato il suo obiettivo su strade del centro e della periferia, fotografando solo e soltanto ciclisti. Adesso ha messo tutti i ventimila scatti su Flickr, alla voce «Tutta la città pedala», perché vuole farne una mostra: così chiede a chiunque si riconosca in uno scatto di mandargli una liberatoria via posta elettronica.

La mostra chissà se si farà mai. Ma intanto gli scatti sono lì, su Internet, divisi in centonovantacinque pagine, in cui si può andare a caccia dei volti noti di amici e conoscenti, e soprattutto di se stessi. E costituiscono di fatto un unico grande ritratto della categoria fiera e (talvolta) disprezzata dei ciclisti urbani: gente di ogni età e censo, accomunati dalla lotta quotidiana contro le portiere aperte all'improvviso e dall'orgoglio dei polpacci ad impatto zero. Sfrecciano, scampanellano, a volte invadono i marciapiedi; sono l'emblema della correttezza politica, anche per questo a molti stanno sul gozzo. «I ciclisti a Milano sono come le vacche sacre in India, non si possono sfiorare», brontolava poco fa il grande avvocato Ennio Amodio. Qualcuno gli rispose con le foto raggelanti di un ciclista steso al suolo, sotto un lenzuolo bianco a un incrocio, ucciso dall'angolo cieco di un camion, l'incubo più costante di tutte le due ruote del mondo. Altro che vacche sacre.

Non c'è nessuno che sia bello al volante di un'automobile, perché l'abitacolo incastra e insacca. I ciclisti invece sono fotogenici anche quando sono brutti, perché la postura conferisce loro inevitabili snellezza e movimento. Nei ventimila ritratti si possono dividere gruppi e sottogruppi: i velocisti e i pacifici, i sorridenti e i concentrati. C'è chi saggiamente usa il casco, ci sono i maniaci della sicurezza che girano bardati come per una partita di hockey, e c'è la grande maggioranza che se ne va a capo scoperto, in sella al suo simbolo metallico di libertà. Di alcuni si intuisce, se non il mestiere, lo status sociale. Manca quasi del tutto la nuova e anomala categoria dei ciclisti a pagamento, i forzati della consegna a domicilio che hanno cambiato la sociologia del velocipede urbano. Non c'è, a meno che non sia ben mimetizzata, nessuna faccia famosa.

E poi ci sono loro, appena intraviste eppure protagoniste, moderne e vecchie, costose o scrause.

Le bici, l'intuizione di Leonardo arrivata fin nell'epoca del titanio, la macchina più perfetta che l'uomo conosca: a ricordarci che Milàn l'è on gran Milàn, ma in fondo è a misura di pedalata.

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