Cronaca locale

Un Tempio non diventerà mai "obsoleto" Demolirlo è ipotecare la nostra memoria

San Siro non è un gazebo elettorale o una cabina telefonica all'Idroscalo

Un Tempio non diventerà mai "obsoleto" Demolirlo è ipotecare la nostra memoria

Si andava al Tempio, ma non per questioni religiose, bensì per ragioni di fede. Il Tempio non era chiesa, né sinagoga, né moschea, e infatti il rito lo si celebrava prima di entrarvi. Era il rito del panino con la porchetta o con il würstel e abbondante senape, accompagnati da una o due lattine di birra.

Il Tempio era la rampa 8 di una dolce salita, un mezzo girotondo che ci faceva tornare bambini e serviva a far montare l'emozione; era i posti migliori da accaparrarsi, quelli sopra la riga di metà campo, da pulire per bene, perché la volta prima ci si erano posati i deretani di «quelli là», oppure perché era nevicato, e si doveva grattar via il ghiaccio annerito dallo smog, aiutandosi con lo zippo; era gli abbracci ai soliti compagni, «il Nervoso», «Valpreda», «gli Sposi», «il Modenese», il decano Michele che arrivava in pullman da Biella e raccontava di quando, venti, trenta, quarant'anni prima, a Milano veniva da solo in Vespa, e la sua morosa non si lamentava mai, non era gelosa, anche perché la sera prima l'aveva puntualmente portata a ballare e poi aveva fatto il proprio dovere...

Il Tempio per tetto aveva il cielo, che ci dava pioggia battente o sole cocente, nebbia o vento, e noi ricambiavamo urlandogli addosso gioie e dolori. Al Tempio erano ammessi anche i mercanti, purché avessero un giro d'affari sulle venti-trentamila lire massimo, raggranellate a colpi di cornetti e grappini, non come quelle sanguisughe dei bagarini che stavano fuori, a succhiare il sangue dei ritardatari non abbonati. Nel Tempio la nostra settimana finiva alla fine del primo tempo e incominciava all'inizio del secondo, e quando c'era di mezzo la coppa, voleva dire che noi vivevamo due settimane anche se il calendario che stava in cucina, non quello che tenevamo nel portafogli, sotto la carta d'identità, ne indicava una. Anche per questo siamo invecchiati in anticipo.

Siamo invecchiati talmente in anticipo, talmente in fretta, che ora ci tocca sopportare ciò che non saremmo mai arrivati a temere nemmeno nei nostri incubi peggiori. Lorsignori hanno deciso che il Tempio dev'essere raso al suolo, perché la struttura è «obsoleta», dicono, nemmeno fosse una cabina del telefono dietro l'Idroscalo o un gazebo elettorale in piazza Cordusio a exit-poll in corso. Perché con lo stadio di proprietà, dicono, «avete visto che cos'ha ottenuto la Juventus? Ha incrementato il fatturato fino al punto da... etc etc». Perché a Milano nel 2026 ci saranno le Olimpiadi invernali, dicono, e «occorre presentarsi al meglio all'appuntamento iridato». Per fare che cosa? Lo slalom speciale fra i seggiolini?

Andavamo al Tempio, dicevo, per ragioni di fede, e adesso lorsignori, essendo pagani che pagano cambiali (con fondi altrui) al Dio Soldo, pretendono di porre un'ipoteca sulla nostra memoria. Ma forse non sanno con chi hanno a che fare. Ci siamo già organizzati, che cosa credono? Ognuno di noi si è costruito un proprio Tempietto in casa, chi in legno, chi con pezzetti di plastica, chi con il pongo.

Quando il Tempio non esisterà più e loro si rotoleranno nel letto ogni notte, schiacciati dal macigno del rimorso, le partite le seguiremo con gli occhi fissi al nostro Tempietto e le orecchie sintonizzate sulla radiolina, come quando i ragazzi giocavano a Catanzaro o a Magdeburgo e noi non vedevamo l'ora di salire ancora e ancora e per sempre, la rampa 8.

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