Cronaca locale

In viaggio nel ricordo: il Famedio dei dispersi

Molti personaggi illustri non riposano nel pantheon La moglie di Verdi e il patriota Sciesa senza sepoltura

Una volta sola non è bastata. In molti se ne sono dovuti andare una seconda, perché non sempre l'ultima dimora è definitiva. E nemmeno la morte è eterna al mondo. Non sempre si va in pace, non sempre si riposa in pace. Di Margherita Barezzi resta lo spirito. Effusione nostalgica del ricordo. Non il corpo, né le ossa. Eppure, quando si addormentò, rimase 45 anni al Fopponino. Oggi, forse, è una di quelle capuzzelle milanesi che ammiccano ai passanti. Ciò che sarete voi noi siamo adesso, chi si scorda di noi scorda se stesso. Le probabilità sono poche. L'edicola risale al 1640 e Margherita vi giunse due secoli dopo, ma di quel distico restò l'esempio più «vivo».

Il suo destino fu segnato il giorno che confessò a papà Antonio, un agiato commerciante di Busseto, l'intenzione di imparare canto e pianoforte. In casa arrivò un giovane precettore di un anno maggiore di lei, affatto famoso ma del quale si diceva avesse stoffa. Giuseppe Verdi. Galeotto fu lo spartito e in un baleno s'innamorarono e si sposarono. La luna di miele la scelse la sorte. Milano. Quando tornarono al paesello, rimasero assai poco. Il tempo di fare due bambini che non vissero più di un anno ciascuno. Poi il compositore mantenne le promesse e una sua opera approdò alla Scala. Gli sposini si trasferirono, ma l'anno dopo Margherita s'ammalò di encefalite. E morì. Era il 1840 e fu sepolta al camposanto di Porta Magenta. L'eterno riposo durò fino al 1885, quando i cimiteri fuori le mura furono chiusi. Tutti.

Il Monumentale nacque da quelle ceneri per ospitare la Milano che conta. E quella che conta un po' meno. L'aristocratica borghesia del «banco in chiesa, palco alla Scala e tomba al Monumentale» che oggi si tiene per mano confidando che sì. Sia loro lieve la terra. Lei, Margherita, è volata su una stella. La profane ruspe che dissodarono la necropoli dove trascorse più tempo da defunta che viva al mondo, non ebbero pietà dei suoi resti. Rimane una lapide a commemorarla. Flebile voce del silenzio. Mentre da un angolo di cielo guarda quel marito, che al Famedio ha solo il nome e nella cripta della casa di riposo per musicisti le mortali spoglie fianco a fianco con la seconda moglie. Sepolture inquiete come certe vite. Neppure Amatore Sciesa ebbe diritto alla pace. Né in vita, né in morte. Il patriota tappezziere del Tiremm innanz! al professo, che lo condusse sotto casa, esortandolo alla confessione per evitare le fucilate del plotone d'esecuzione, tristo sostituto del boia, defunto il giorno prima, ha pagato con l'oblio. Sfrattato dalla tomba al Fopponino, non ne ha avute altre.

Zolle sulla memoria. Semantica sacrificata sull'altare della filologia. Fama aedes. Connubio di termini femminili all'origine di uno maschile. Famedio. Ovvero, la casa della notorietà. Ma i concetti, come le istituzioni, nascono per essere smentiti. Snaturati. E il pantheon, affollato da centinaia di illustrissimi, ospita invero un minima parte di loro. Manca chi ne avrebbe titolo, c'è invece chi non sempre lo merita. Tragica altalena di presenza e assenza, contese tra le lacrime del rimpianto che negli anni si fanno malinconico sorriso. Il tempo è galantuomo, in fondo. Ma la morte resta la nemica.

Alberto Ascari non la temeva e aveva scelto un mestiere ad alto rischio. Pilota di formula 1. Giurò di non correre mai il 26 di ogni mese da quando - in quel luglio del '51 - un incidente gli portò via il papà a soli 37 anni. Non passò un lustro e nel '55, l'amico Gigi Villoresi, anch'egli al volante dei bolidi, lo invitò a Monza a provare una Ferrari. Correva maggio e Ascari dimenticò quella promessa. Doveva fare tre giri. Una bischerata tra compari. All'ultimo passaggio, nello stesso punto in cui in gara era uscito di strada con la sua Lancia, finì fuori anche con il cavallino rosso. Si capovolse. E morì sul colpo. Era il 26 e aveva 37 anni. Riposa senza pace al Monumentale di fianco al padre Antonio. Il pilota italiano più famoso di sempre è stato ignorato dal Famedio, ma non dai ladri che hanno sottratto i bronzei busti dei due piloti.

Ricordi controcorrente. Come quelli di un casanova. Sulle lapidi del pantheon c'è un nome. Celebre. Veniva da Parma come Verdi e, come Verdi, alla Scala era di casa. Arturo Toscanini lasciò New York e tornò in Italia quando l'amante, il soprano Geraldine Farrar, donna di troppo piglio, gli impose di lasciare moglie e figli per sposarla. La sua risposta furono le valigie. Era il 1915. La moglie manager, Carla de Capitani, gliele perdonò tutte, ma se ne andò per prima. Quando il maestro era diventato un uomo fedele. Nel '40 aveva concluso l'ultima sua storia d'amore extra coniugale, iniziata l'anno in cui la figlia Wanda le presentò un giovane pianista e compositore ucraino di buon avvenire. Vladimir Horowitz. Quell'anno anche il maestro scelse una pianista. Corsi e ricorsi dei sentimenti. Ada Colleoni aveva trent'anni in meno ed era la moglie di un collega. Dopo sette di segreta liaison si lasciarono e Toscanini non si ripeté. Mai più.

La cappella di famiglia li ha riuniti a poca distanza da un pantheon, che oggi assomiglia a Zelig. Eppure, anche Dina Galli non fu ammessa. Una statua di Angelo Biancini la raffigura con una mano sul volto e l'altra su una maschera. Era arte. Nonna Felicita, che negli ultimi anni di carriera era la pensionante di Vanità, in cui un giovane Walter Chiari rincorreva il cuore di una sartina cui non perdonò un tradimento, non poteva immaginare di ritrovarselo al Monumentale. Lei nella sua tomba. «A Dina Galli i milanesi». Lui al mausoleo Palanti, edificato l'anno in cui il comico del sarchiapone venne alla luce. Il 1924, secondo dell'era fascista. Offri il sangue tuo alla patria. Eppure di eroi, lì, non ce n'erano. Dino Alfieri, ministro della cultura di Mussolini riposa in un campo dimenticato. Senza celebrazioni. Walter Chiari condivide un tetto con Luigi Berlusconi e Giovanni D'Anzi, il padre di O mia bela Madonina, canto d'amore a Milano. E della colonna sonora di quel film, Vanità, che riunì la veterana e il ragazzino. Dina Galli invece avrebbe trovato un prete come dirimpettaio. Il Gius. Per tutti, don Giussani, fondatore di Cl. La sua sepoltura è pellegrinaggio di preghiera. Incessante. Non dire mai che è morto, non dire era, faceva. Le tristi parole non servono che a farlo sprofondare ancora di più nella terra scrisse un giorno Daria Menicanti. Anch'essa sepolta al Monumentale.

Dimenticata.

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