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Minuetto di Fini: «Giudicatemi pure» E la querela del pm svanisce nel nulla

RomaE ’o malamente, chi fa ’o malamente in questa edificante storia? Si son scordati proprio il personaggio che dà pathos al canovaccio, quello che consentiva al grande Mario Merola di chiudere la sceneggiata intonando “’O zappatore”, e giù scrosci di applausi e commozione. Occorre qualcuno che soffra e s’offra almeno nei panni di Franti, «e l’infame sorrise», se non un Cassio che agiti il pugnale, affinché la triangolazione tra il magistrato Henry John Woodcock, il presidente della Camera Gianfranco Fini, e il nuovo giornale di Marco Travaglio e Antonio Padellaro non finisca in minuetto, un po’ scontato e per nulla avvincente.
Ma andiamo con ordine. Avete presente il Fatto Quotidiano, giornale fiancheggiatore del partito dipietrista e delle toghe rosse, di Padellaro e Travaglio? Un giornale con vocazione chiara: spingere il Pd e l’intera sinistra sulla via del giustizialismo e della guerra finale contro il Cavaliere nero. Così martedì 29 settembre, al sesto numero in edicola, sotto un articolone di Travaglio che spiegava come Luigi De Magistris e «i pm di Salerno avevano ragione», c’era una piccola «storia» titolata: «Fini non riesce a farsi processare». Che voltando pagina ci fosse un grande titolo «i finiani con Santoro contro Scajola» è certamente un caso, però marginale in questo intreccio.
Ricordate quando Woodcock, il piemme di Potenza che ha messo in carcere pure il figlio dell’ultimo re, aprì fascicoli sulla moglie (ora ex) di Fini, Daniela Di Sotto, sul suo segretario Francesco Proietti e sul portavoce, Salvatore Sottile? Correva l’anno 2006, e a giugno il leader di An andò a Porta a Porta distillando parole di fuoco all’indirizzo del magistrato. Questi lo querelò, e nel marzo 2008 il piemme romano Erminio Amelio chiese il rinvio a giudizio di Fini, tanto da far disporre al Gip, due mesi dopo, l’invio delle carte alla Camera, chiedendo l’autorizzazione a procedere contro Fini. Il Fatto riesumava questa vicenda semi dimenticata, svelando che «c’è un fascicolo fantasma che si è perso tra il Palazzo di Giustizia di Roma e la Camera dei deputati», e ricordando che quando la notizia del rinvio a giudizio divenne pubblica, nella primavera del 2008, Fini divenuto presidente della Camera dichiarò: «Non mi avvarrò della sospensione del procedimento prevista dal Lodo Alfano». Oddio, il Lodo Alfano è divenuto legge dello Stato soltanto a luglio, ma poco importa. La sostanza è che, secondo il Fatto, alla data del 28 settembre appena scorso, alla Giunta per le autorizzazioni a procedere di Montecitorio presieduta da Pierluigi Castagnetti, «il fascicolo non è mai arrivato»; e alla Procura romana non sapevano spiegarsi, perché «l’ufficio del Gip aveva detto che era partito». Misteri dei ministeri ed altri misteri...
Ieri il colpo di scena. Anzi, i colpi. Alle 11 del mattino l’onorevole Giulia Bongiorno, che è pure legale del presidente della Camera, ha annunciato che Fini, avvalendosi del comma 2 del Lodo Alfano, rinuncia formalmente al “paracadute” istituzionale ed è disposto a misurarsi con Woodcock in tribunale, per quelle presunte offese verbali. La Bongiorno stessa ha depositato l’istanza di rinuncia al Lodo da parte di Fini. E sulla base di tale istanza - informa l’Ansa che come Bruto è agenzia d’onore - «sarebbe già arrivata alla Giunta delle autorizzazioni a procedere della Camera la richiesta da parte della procura competente per questo caso».
Contenti? Sant’Onofrio lu piluso ha fatto la grazia rimaterializzando il fascicolo perduto, la bravissima avvocata ha spianato le vie della Giustizia e il coraggioso Fini, altro che il pavido Cav, affronta il processo. Tutto in tre giorni, meglio di Nostro Signore. Passano però 4 ore, ed ecco che Woodcock, «avendo appreso che Fini ha rinunciato al Lodo Alfano», rimette la querela, facendo spiegare dal suo avvocato che «la sensibilità istituzionale mostrata da Fini compensa la pur grave offesa» arrecata al suo assistito «dalle sue dichiarazioni dell’epoca».
Bella cantata a tre, con morale che ognuno può interpretare come vuole.

Ed è pensar male ovviamente, che presto la Consulta dovrà pronunciarsi sulla costituzionalità del Lodo Alfano, e che l’unico ora rimasto sotto quel paracadute è il premier.

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