Controstorie

Minuscolo ma strategico Gibuti centro del mondo

Stati Uniti, Italia, Francia, ora la Cina. Tutti vogliono una base lì. Anche indiani e sauditi

Luigi Guelpa

Ottant'anni fa Dino Buzzati nelle sue corrispondenze di guerra descriveva il Gibuti come una «terra in letargo». Oggi il piccolo paese africano è in movimento perpetuo e vive la condizione di un nuovo colonialismo selettivo. Pochi giorni dopo l'attacco alle Torri Gemelle, il Pentagono individuò in Gibuti l'avamposto ideale per allestire la prima base americana anti terrorismo in Africa. Sbarcarono centinaia di uomini dai giganteschi cargo atterrati sulla pista infuocata dell'Ambouli Airport. In poche settimane l'area non molto distante dall'aeroporto venne battezzata «Camp Lemonnier», e la terra rossa dovette fare spazio a una sterminata serie di installazioni militari, prefabbricati, colate di cemento armato e chilometri di filo spinato. I marines furono i primi, poi arrivarono, tra gli altri, gli italiani (nel 2013) e i francesi (2014).

Tutti a caccia di terroristi e tagliagole? Certo, ma è stata soprattutto la strategica collocazione di Gibuti ad attirare le forze alleate come api sul miele. Almeno fino allo scorso 19 settembre, quando l'emittente CCTv ha interrotto le trasmissioni per mandare in onda immagini provenienti da un paesaggio lunare. Sembravano scene tratte dal videogioco «Sniper Elite», con mezzi cingolati che avanzavano, soldati che esplodevano colpi da armi automatiche scintillanti e batterie anti-aeree puntate verso il sole. CCTv è il più importante network televisivo di Pechino e i militari entrati nelle case di un miliardo e mezzo di persone non erano altri che gli uomini (e le donne) dell'Esercito Popolare.

Da settembre anche la Cina ha la sua base operativa a Gibuti, la prima all'estero della storia moderna del Paese. Secondo le affermazioni del ministro della Difesa Chang Wan Quan è destinata a sostenere le operazioni di mantenimento della pace nell'area per conto delle Nazioni Unite, ovvero l'evacuazione di cittadini somali finiti nella morsa degli Al Shaabab e dei profughi yemeniti generati dai bombardamenti sauditi. Anche se Pechino sa benissimo che uno dei principali obiettivi dell'operazione-Gibuti è quello di scortare le navi di passaggio, controllare l'accesso al Mar Rosso sullo stretto di Bab el Mandeb (uno dei corridoi marittimi più trafficati al mondo) e sviluppare ulteriormente in Medio Oriente e Africa le partnership economiche. L'arrivo dei militari è stato l'atto conclusivo dell'inaugurazione del porto multiuso di Doraleh, costato 590 milioni di dollari e costruito dalla China State Construction Engineering Corporation. L'escalation cinese, presente a Gibuti con 5.500 uomini, non piace al Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti che in un recente rapporto dice di «temere l'amplificata e crescente influenza di Pechino e delle sue forze armate». La Cina ha replicato di «cercare un rafforzamento di natura difensiva, senza programmare un'espansione militare. Gli Stati Uniti hanno più di 600 basi all'estero, la Francia una dozzina. Noi di permanente abbiamo soltanto questa. I numeri non si possono smentire». L'assenza di una pista di atterraggio e decollo è l'unico inconveniente della base cinese.

Gli Stati Uniti dispongono di un proprio campo di volo a Gibuti, che viene utilizzato, in particolare, per lo schieramento di droni militari. La Cina prevede di effettuare investimenti significativi nella costruzione del secondo aeroporto internazionale di Gibuti e, se necessario, essere in grado di utilizzare le infrastrutture locali, a beneficio dei propri aeromobili. Sulla questione delle alleanze è intervenuto il presidente del piccolo stato africano, Ismail Omar Guelleh, promuovendo Pechino come primo partner di Gibuti e di fatto spostando equilibri delicatissimi. «La Cina è l'unica nazione al mondo a investire da noi in tutti i campi: ferrovie, porti, banche e industria. La Francia e gli europei in generale ci hanno abbandonato e gli americani hanno perso l'interesse di un tempo». Guelleh si riferisce all'ambizioso progetto del gasdotto che collegherà Gibuti ad Addis Abeba, in Etiopia, su una tratta di 752 km che sarà parallela a quella della ferrovia, anche in questo caso sponsorizzata dai cinesi. I dettagli dell'operazione sono stati discussi lo scorso 23 novembre durante la visita di Guelleh a Pechino dal presidente Xi Jinping. Si tratta del primo capo di stato africano a visitare la Cina dalla conclusione del 19esimo Congresso nazionale del Partito comunista in ottobre. Gli analisti ritengono questo passaggio fondamentale nella campagna d'Africa innescata da Pechino ormai da almeno un decennio. Xi Jinping si sta muovendo con parecchia disinvoltura nel continente nero e il sostegno alle forze del generale Chiwenga per deporre Mugabe nello Zimbabwe, e mettere le mani sulle miniere di diamanti, è stato solo l'ultimo atto .

Che il rapporto di Gibuti con la Cina sia ormai privilegiato lo si evince anche da un episodio di poche settimane fa, quando nella capitale si è presentato il vice-ministro degli Esteri giapponese Manabu Horii, in missione diplomatica per verificare la possibilità di ampliare la base militare. Le richieste di Tokyo sono state rispedite al mittente.

E lo stesso potrebbe accadere con l'India, che si è detta interessata a intensificare i rapporti, così come l'Arabia Saudita che ha rivelato di aver raggiunto un accordo di massima per «affittare» una lingua di deserto gibutiano e costruire una base entro il 2020.

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