Controcultura

Il mio famoso saggio sul Jazz? È nato nella vasca da bagno

Lo scrittore Geoff Dyer ci racconta la genesi e tutti i segreti del suo libro più amato: «Natura morta con custodia di sax»

Il mio famoso saggio sul Jazz? È nato nella vasca da bagno

Il lento processo di rivalutazione del libro si contrappone alla sorprendente rapidità della sua creazione e composizione. Avevo cominciato a interessarmi di jazz solo quattro o cinque anni prima di iniziare a scriverlo. L'unione di tre elementi contribuì affinché vedesse la luce. Prima di tutto, il mio amico Chris Mitchell aveva una straordinaria collezione di dischi jazz. Molti grandi classici li ho sentiti per la prima volta nella casa a Brixton in cui convivevamo, oppure poco dopo, nel suo appartamento sulla stessa strada: Wednesday Night Prayer Meeting di Charles Mingus da Blues and Roots; Charlie M dell'Art Ensemble of Chicago (Full Force); Spiritual di John Coltrane (Live at the Village Vanguard); Make a List, Make a Wish di Art Pepper, registrato al Ronnie Scott's Club di Londra appena sei anni prima, nel 1980, cosa che mi stuzzicava non poco... In questo periodo a Londra il genere viveva una sorta di rinascita. Una nuova generazione di neri britannici riscopriva il jazz e, a differenza mia, non si limitavano ad ascoltarlo, lo creavano. Quasi miei coevi, erano figli di immigrati (la cosiddetta generazione Windrush) giunti nel Regno Unito dai Caraibi negli anni cinquanta. E così se un'abile comitiva di bianchi di mezza età aveva tenuto viva la fiamma del jazz negli anni settanta, a metà degli anni ottanta la tipologia di musicisti e di pubblico cambiava, e il jazz tornava decisamente di moda. C'era una vera e propria scena jazz. Capitava di vedere Courtney Pine, Steve Williamson o Julian Joseph in posti come l'Atlantic a Brixton o il Jazz Café di Stoke Newington. E nel frattempo vecchie leggende della musica jazz americana si esibivano regolarmente al Ronnie Scott's di Soho (Elvin Jones! McCoy Tyner!) o in grandi sale da concerto (l'Art Ensemble e Sonny Rollins al Fairfield Hall di Croydon), quindi c'era un legame diretto, un legame vitale tra il jazz che vedevo dal vivo e la musica che ascoltavo su disco. Insomma, un perfetto trio di circostanze.

Per dirla con il titolo di un album di Rollins del 1989, mi ero innamorato del jazz, volevo saperne di più, ma c'erano pochi libri in grado di soddisfare quella curiosità. Una curiosità intralciata dall'ignoranza, visto che mi mancavano le conoscenze più basilari, per cui un termine come «Si bemolle maggiore» non mi diceva (e tuttora non mi dice) assolutamente niente. Se non riesci a trovare i libri che vorresti, la soluzione estrema è scriverne uno. E così me ne stavo disteso nella vasca da bagno a Londra pensando «Scriverò un gran bel libro sul jazz!», e poi la smettevo di sguazzare nell'ego, asciugandomi fino all'arida ragionevolezza. Andò avanti così per qualche tempo, finché a un certo punto, contando su qualcosa di più di una promessa, il mio editor mi concesse qualche fondo per tentare di scriverlo. Sapevo che per farlo avrei dovuto stare in America, per questo nel settembre del 1989 mi trasferii a New York. Comprai un sacco di cd e creai alcune musicassette da ascoltare sul Walkman. Oggi tutti ascoltano musica mentre vanno in giro, lo diamo per scontato, ma a quei tempi era un qualcosa di nuovo e piuttosto bizzarro. Passeggiavo nel quartiere dove viveva Thelonious Monk con la sua musica in testa un'esperienza che induce una sorta di sinestesia, dove il sentire si fa vedere e viceversa. E poi andavo per locali e per concerti tutte le sere. C'era un continuum perpetuo fra i musicisti che andavo ad ascoltare e le persone di cui scrivevo. Quando vidi il pianista Kirk Lightsey suonare al Village Vanguard, per uno strano gioco di luci la sagoma gettò un'ombra lasciva e minacciosa, che mi venne da proiettare in uno degli eccentrici intermezzi di Bud Powell.

Gli scrittori parlano spesso di un lavoro di ricerca, che ho sempre percepito come lontano da ciò che faccio io. I miei libri sono piuttosto frutto di un passatempo. Quando hai un interesse, scavare e saperne di più è semmai fonte di piacere. Ho fatto questo tipo di lavoro all'Institute of Jazz Studies, in New Jersey, ma anche in quel caso si trattava più di un hobby, perché il mio «metodo» difettava di qualsivoglia rigore tipico della ricerca; sembrava piuttosto di essere a un mercatino dell'usato in cui gli oggetti sono per ispirazione e non in vendita. E approfittavo del fatto che New York, all'epoca, era impregnata di jazz. WKCR trasmetteva i programmi jazz condotti da Phil Schaap, che coniugavano passione ossessiva, conoscenza approfondita e quella meticolosità associata alle riviste scientifiche (ma che in realtà si addice perfettamente alla radio). Poco dopo il mio arrivo a New York, la stessa stazione radiofonica celebrò, il 23 settembre, il compleanno di Coltrane, passando ventiquattro ore di suoi brani, inframezzati da contributi di alcuni suoi collaboratori, fra i quali il batterista Rashied Ali. Per il settantesimo compleanno di Art Blakey, l'11 ottobre, andarono avanti a trasmettere suoi pezzi per una settimana.

Ricordo a malapena la parte di effettiva scrittura del libro, e sospetto che sia perché fu piuttosto facile. Dopo qualche mese, la mia fidanzata lasciò Londra e mi raggiunse a New York, dove iniziò a lavorare come cameriera in un bar. Ci svegliavamo tardi, andavamo a letto tardi, e fra una cosa e l'altra capitava che ascoltassi jazz e scrivessi di jazz facevo la bella vita. A febbraio 1990 decidemmo di partire, un viaggio in macchina dal New Jersey a Los Angeles, trascorso ad ascoltare jazz sullo stereo per tutto il tempo. Nel libro molti dei passaggi su Ellington sono ispirati a cose notate o vissute durante quel viaggio.

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