Cultura e Spettacoli

«Il mio Novecento tra due fuochi»

Mirko Tremaglia, figura storica della destra italiana, racconta mezzo secolo di passioni e dolori, dall’entrata nella Repubblica sociale a un «inedito» omaggio al milite ignoto sovietico

Mirko Tremaglia, ministro per gli Italiani all’estero e figura storica della destra italiana ha raccontato fatti, passioni e dolori della propria vita. Lo ha fatto ieri sera per Il mio Novecento: la trasmissione di Rai Tre che «propone l’incontro con personalità significative che hanno segnato il secolo appena trascorso».
Molti gli spunti di riflessione offerti dai ricordi del ministro. Nella sua giovinezza Tremaglia ha ricordato il padre funzionario del Tesoro che «in Africa viene fatto prigioniero, muore e viene sepolto ad Asmara». Una sepoltura che avrà un peso nelle battaglie politiche del figlio. Ma è l’adesione al fascismo a segnare in primis la vita di Tremaglia: «Il fascismo che mi ricordo è pieno di entusiasmo giovanile». Arriva il 25 luglio: sono i giorni di scelte drammatiche: «Il giorno dopo andai in Federazione. Ero giovane, giovanissimo, rigorosamente fascista, mussoliniano. Sbandato, come tanti».
Poi arriva l’8 settembre: «La tristezza di tutta la mia vita: un popolo abbandonato nelle mani dei tedeschi». Con la liberazione di Mussolini «ricomincia la grande passione». Nasce la RSI. «Io e i miei fratelli aderimmo. A novembre rientrai da scuola e dissi: “Ciao mamma. Io vado”». Perché quella scelta? «Il volontarismo fu una insegna vera, il volontarismo della RSI fu veramente eccezionale. Perché quando tutto era perduto molti partirono volontari e poi c’erano le grandi parole d’ordine, quelle dell’onore, contro il tradimento, quello di difendere la Patria che era stata abbandonata, quella di riscattarsi contro la vergogna e contro il disonore». Sottotenente nella RSI, nel ’44 diserta perché non vuole andare a Torino ma al fronte. A quel punto «sono stato messo in galera dai fascisti». Dopo aver rischiato la fucilazione viene accontentato e spedito al fronte: «Finii la mia guerra in Garfagnana: venni fatto prigioniero».
Dopo la guerra, Tremaglia aderisce subito al Movimento Sociale. «Era il partito degli sconfitti che doveva ricominciare, con una precisa intuizione nei confronti del fascismo, il nostro motto era “non rinnegare, non restaurare”. Bisognava andare avanti». Tremaglia diviene Segretario giovanile a Bergamo. Non c’erano soldi. «Almirante ci faceva firmare le cambiali: cosa che non avevo fatto mai nella vita». È la battaglia per gli italiani all’estero la grande battaglia (vinta) da Tremaglia. «Nel 1963, vado a far visita alla tomba di mio padre. Era la prima volta che andavo e non conoscevo nessuno ad Asmara. Con grande sorpresa ho trovato fiori freschi sulla tomba. Ecco nasce dal lì il mio grande amore per gli italiani nel mondo, da quella visita alla tomba di mio padre». Dopo poco, nel 1968, nascono I Comitati Tricolore degli Italiani nel Mondo. Il voto per gli italiani all’estero «è stata la battaglia, il traguardo della mia vita. La prima proposta di legge del senatore missino Ferretti porta la data del 22 ottobre 1955». La vittoria definitiva arriva nel 2001. «Sono l’unico parlamentare che sia riuscito a cambiare per ben due volte la Costituzione per dare il voto ai nostri connazionali all’estero».
C’è un episodio che spiega come è fatto Tremaglia. «Era l’8 aprile del 1988 e una delegazione della Commissione Esteri va a Mosca: c’erano Scalfaro, Pajetta, Piccoli e c’ero io. Erano i tempi di Gorbaciov e della Perestroika. Ma loro erano e restavano comunisti. Chiesi dei cimiteri e di poter ritrovare i nostri soldati. Scalfaro mi dice: “Mirko: sei stato bravissimo! Perché hai posto il problema anche in termini umanitari”. Ma per gli altri non era così. Un generale mi attaccò immediatamente dicendo che io ero un estremista di destra, e che i soldati italiani erano “criminali fascisti”. Nessuno reagiva. Mi scattò la molla: contrattaccai dicendo che i criminali erano loro, erano stati gli uomini di Stalin che avevano fatto milioni di morti assassinati, ho ricordato il patto Ribbentrop-Molotov. Mentre parlavo il silenzio degli altri era agghiacciante. Il clima tesissimo. Prese la parola Piccoli dicendo di “essere contento di aver perso la guerra”. Io mi alzai, la riunione era finita, presi Piccoli e gli dissi che lo avrei sbattuto giù dalle scale del Cremlino, che lui aveva disonorato i soldati italiani, che siccome non ero un bastardo, sarei andato a rendere omaggio al milite ignoto sovietico, cosa che ho fatto. Giancarlo Pajetta mi disse: “Questo è un Paese difficile, se ti occorre una mano sono disponibile”».
Una vita straordinaria quella di Tremaglia segnata da un grande dolore. «Nel 2000 accade un fatto tragico nella mia vita: la morte di Marzio, mio unico, adorato figlio. Marzio era Assessore alla cultura della Regione Lombardia, un uomo e un politico stimato da tutti, persona di grande rigore morale. In molti ancora lo rimpiangono. Veltroni, durante una dichiarazione di voto in aula, ha parlato di Marzio. Tutti i parlamentari rimangono sbigottiti, io ero frastornato, e ascoltavo con profonda commozione le parole toccanti di Veltroni, e anche se Marzio non era deputato, alla fine di quel ricordo, tutta l’aula si è alzata in piedi».
Quindici giorni prima di morire, Marzio aveva rilasciato un’intervista in cui diceva: «Credo nei valori del radicamento, della identità e della libertà, nei valori che nascono dalla tutela della libertà personale. Sono convinto che la vita non può ridursi allo scambio, alla produzione, o al mercato, ma necessita di dimensioni più alte e diverse. Penso che l’apertura al sacro e al bello non siano solo problemi individuali. Credo in una dimensione etica della vita che si riassume nel senso dell’onore, nel rispetto fondamentale verso se stessi, nel rifiuto del compromesso sistematico e nella certezza che esistono beni superiori alla vita e alla libertà per i quali, a volte, è giusto sacrificare la vita e la libertà».

È il testamento spirituale di un figlio che sa di morire a un padre che gli sopravviverà.

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