Controcultura

"Mio padre Leo snobbato da un Paese troppo fazioso per apprezzare l'indipendenza di giudizio"

Il figlio: "C'è una attenzione modesta su di lui. Noi eredi siamo stanchi: ancora si tirano in ballo le sue scelte giovanili sotto il Duce e si dimentica tutto il resto"

"Mio padre Leo snobbato da un Paese troppo fazioso per apprezzare l'indipendenza di giudizio"

Paolo Longanesi, anni 72. Timbro di voce molto longanesiano. Distaccato da tutto, anche dalle celebrazioni di suo padre. Ah, Paolo Longanesi è figlio di Leo, vent'anni passati al Giornale con Montanelli, poi alla Voce, poi in Confindustria, poi ghost writer del sindaco Albertini... È nato nel '45, lo stesso anno in cui il padre si trasferì a Milano con la famiglia per fondare, l'anno dopo, la casa editrice de cuius.

Qual è l'eredità lasciata da suo padre?

«Tante. Nell'editoria, nel giornalismo...».

Iniziamo dall'editoria.

«Nel campo editoriale aveva un dono assoluto. Saper scegliere gli autori che anticipavano sempre i tempi cui si andava incontro. Scrittori americani o europei che quando li traduceva nessuno sapeva neppure che esistevano».

E nel giornalismo?

«Ha lasciato una traccia. Nella scrittura è stato davvero un maestro. Sia nello stile sia nell'efficacia di esposizione. Più ancora che nella capacità di osservazione, svettava nella sintesi. Era brillantissimo, e originale. Oggi, al confronto, gli articoli che mi passano sotto gli occhi sono illeggibili. Nove su dieci sono banali, scontati, scritti male, interessati più che interessanti...».

Sta facendo il Longanesi...

«No, sto dicendo che se Longanesi aveva una forza, era quella di essere indipendente. Nello scegliere cosa scrivere: un pezzo di arte, un commento politico, una nota di costume, un ritratto di un personaggio in vista... E come scrivere: con sarcasmo, ironia, cattiveria se serve... Si chiama indipendenza di giudizio. Cioè libertà».

In Italia la gente dice che nei giornali manca la libertà.

«Mio padre diceva che non è la libertà che manca, mancano i giornalisti liberi».

Longanesi era un grande aforista.

«Era un grande scrittore. Punto. Ci ha lasciato pagine meravigliose, acute, intelligenti. E lo dico da lettore, prima che da figlio. Ma sa quale è il problema, oggi? Che quando si parla di Longanesi manca il pubblico a cui si rivolge».

Troppo difficile per il lettore di libri da Autogrill?

«E non solo per loro. Mancano i lettori in generale. Nessuno vuole ascoltare qualcuno che gli insegni qualcosa. Tutti vogliono insegnare agli altri. Nessun lettore, tutti autori. Il premio Strega andrebbe dato non a chi scrive, ma a chi legge. Sono i veri eroi. Ha idea di quanta gente, dopo che ha saputo come mi chiamo, mi sottopone, ogni giorno!, testi, libri, manoscritti? Pensano tutti di essere Longanesi...».

C'è un Longanesi, oggi?

«Io non lo vedo. Sì, certo: c'è qualche giornalista di cui apprezzo l'efficacia e l'originalità, le due qualità più importanti nella scrittura. Pietrangelo Buttafuoco, quando ha firmato l'introduzione di alcune riedizioni dei libri di mio padre, l'ha fatto in una maniera nuova, che mi è piaciuta. Ma altri che si piccano di essere suoi eredi, no. Non ci sono. Dopo Montanelli, e in parte Bettiza, non c'è stato più nessuno a quel livello. Almeno, a me non vengono in mente...».

Cosa le viene in mente di Leo Longanesi come padre? Morì quando lei aveva 12 anni.

«Poche cose, ma molto bene. Mi ricordo che il suo essere genitore coincideva col suo essere editore. Quando stava con me e le mie sorelle, soprattutto in vacanza, e il sabato e la domenica, perché era sempre sommerso di cose da fare per i giornali e la casa editrice, trasformava il suo lavoro in un gioco per educarci. Ci faceva vedere i suoi disegni e le nuove copertine di libri e ci chiedeva cosa ne pensavamo, cosa ci piaceva. Ci coinvolgeva in ciò che faceva, mi ricordo noi bambini in mezzo a pennarelli e vasetti di colla, ci regalava libri che faceva lui, pieni di illustrazioni... E poi mi ricordo di lui che invitava a casa giornalisti e scrittori, come Montanelli - che con papà andava alternativamente d'accordo e in disaccordo - o Ansaldo, Orsola Nemi, Henry Furst, Baldacci, il primo direttore del Giorno... ma anche industriali, come Lombardi... Aveva un carattere difficile, ma era molto amato».

E oggi?

«Oggi non so. C'è un'attenzione modesta su Longanesi, a parte qualche anniversario. Ma noi figli siamo i primi a non fare molto per iniziative e celebrazioni varie...».

Perché?

«Perché ci siamo stufati. È morto da sessant'anni e ancora, quando si parla di lui, si tirano in ballo le sue scelte giovanili, sotto il Duce. Ma quanti secoli devono passare perché si inizi a leggere Longanesi senza la pregiudiziale ideologica? Non c'è un popolo in cui la faziosità è radicata così profondamente come nel popolo italiano. Citi Longanesi, e scatta il riflesso pavloviano: Era fascista!. E così addio a qualsiasi possibilità di conoscere la sua opera per quello che è. Come se io dessi un giudizio sulla poesia di Dante, guelfo, condizionato dal fatto che non condivido l'ingerenza della Chiesa nella società. Mah...

In questo l'Italia è ancora al Medioevo».

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