Una missione che nessuno vuole guidare

Francesco Damato

Se non si fida dell’opposizione, dove i dubbi crescono a vista d’occhio, e neppure del suo vice Francesco Rutelli o di Marco Pannella, accomunati nella maggioranza dalla preoccupazione per la «fretta» con la quale il governo si è mosso sinora sullo scivoloso terreno della missione militare dell’Onu in Libano, Romano Prodi dovrebbe avere il buon senso di riflettere almeno sulle domande giuntegli da un giornale - La Repubblica - che tanto si è speso per la sua pur stentatissima vittoria elettorale.
Dopo avere definito «particolarmente azzardata» la valutazione della prospettiva del comando italiano della missione Onu come «una medaglia da esibire», Lucio Caracciolo gli ha chiesto: «Perché mai dovremmo compiacerci di accettare ciò che i nostri alleati disdegnano? Non sarebbe più utile capire perché sarebbero inclini a lasciarci le chiavi di un appartamento dal quale vogliono tenersi alla larga?».
Sarebbe augurabile che Prodi non liquidasse anche queste domande, al pari del dibattito politico che continua a svolgersi sulla sua successione a Palazzo Chigi, come un chiacchiericcio estivo. Questa volta, più ancora della sua presidenza del Consiglio, è in gioco la vita di qualche migliaio di soldati italiani. Ai quali il ministro degli Esteri Massimo D'Alema, più ancora di quello della Difesa Arturo Parisi, non vede l’ora d’infilare gli scarponi per mandarli a presidiare le frontiere del Libano con Israele. Ma anche quelle ancora più nevralgiche con la Siria, da dove arrivano da anni i rifornimenti a Hezbollah: quello strano partito al governo ai cui miliziani lo Stato libanese ha lasciato per anni il controllo delle sue province meridionali, permettendo addirittura di lanciare missili e quant’altro contro il territorio israeliano. Il disarmo di questo partito è già stato inutilmente richiesto dalle Nazioni Unite due anni fa. A provvedervi dovrebbe essere ora l’esercito libanese, che però al massimo è disposto a inglobarne le milizie, lasciandosene magari guidare nel giro di qualche mese per scongiurare il rischio dichiarato di una guerra civile.
«Se ci riusciamo - diceva lunedì scorso con la sua solita baldanza D'Alema per telefono a uno dei vice direttori proprio della Repubblica, Massimo Giannini, navigando sulla sua barca verso le Egadi e pensando al comando italiano dei caschi blu - la missione avrà una forza molto più cogente. E per l’Italia sarà un riconoscimento importante: un atto che sancirà anche sul piano formale quanto è già evidente sul piano sostanziale. L’Italia è in campo, è in prima fila, c’è e c’è stata fin dall’inizio di questa crisi mediorientale». Verrebbe voglia di dire, di fronte a tanta ebbrezza velica: fermate quest’uomo prima che sia troppo tardi.
È deluso e preoccupato per l’imprudenza di D’Alema, lasciatosi accompagnare peraltro sottobraccio senza alcun imbarazzo per le strade di Beirut da un deputato di Hezbollah, persino Francesco Cossiga. Il quale si è dichiarato pentito di averlo portato nel 1998 a Palazzo Chigi. Ma ancora quattro mesi fa egli ne sostenne la candidatura addirittura al Quirinale, «ahimè fallita - ha ricordato su un giornale il 17 agosto - per l’intesa Casini-Rutelli e la miopia di Silvio Berlusconi». Qui, caro presidente emerito della Repubblica, c’è un «ahimè» di troppo.

E anche un errore diagnostico: Berlusconi in quel passaggio è stato fortunatamente presbite, non miope.

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