Cultura e Spettacoli

La missione impossibile? Amare una moglie valchiria

L'ex ragazzo timido e succube del padre si trasformò andando per mare. Il profondo legame con la sua Armgart

«Ho sempre fuggito l'avventura. L'ho incontrata sulla mia strada». Non è per vezzo salottiero che Henry de Monfreid (nato a La Franqui il 15 novembre 1879 e morto a Ingrandes il 13 dicembre 1974) ripeteva questa frase. Del resto lui ai salottieri aveva sempre riservato un disprezzo che potremmo definire antropologico: intellettuali di risulta, politici ruffiani, dame di incerti costumi... Non era, quella, la battuta del vecchio lupo di mare, dello Shaytan, del Diavolo del Mar Rosso ormai diventato leggenda vivente, dell'uomo che i seguaci di Maometto chiamavano Abd-el-Hay, lo Schiavo del Vivente, uno dei 99 nomi di Allah. Era, semplicemente, la pura verità.

Da ragazzino, a scuola, fu vittima dei bulletti, e a casa subì la dominante personalità del padre George Daniel, perfetto esemplare di «avventuriero passivo». I primi passi nel mondo del lavoro furono ora grotteschi tentativi, ora clamorosi autogol. E quanto alle donne... certo, a 16 anni aveva già compiuto l'apprendistato erotico, ma razzolando molto in basso, sui gradini della scala sociale e dei sentimenti, fino alla scelta di una compagna, Lucie, una pescivendola, che gli darà il suo primo figlio... Intorno ai trent'anni, Henry è forse anche meno di un fallito: è un non pervenuto in una Francia che sente non sua e alla quale si nega. Ma da qui inizia la sua seconda (la sua vera ) vita. Per caso. Superata una lunga malattia, è quasi letteralmente in mezzo a una strada quando...

E qui la parola dovrebbe passare a Stenio Solinas, firma di questo giornale e scrittore, autore di Il corsaro nero. Henry de Monfreid, l'ultimo avventuriero (Neri Pozza, nelle librerie dal prossimo 10 settembre). Il primo brano della sua biografia che pubblichiamo in queste pagine riguarda proprio l'approdo in Africa del... clandestino al contrario, de Monfreid. Fugge da una guerra prima che sia scoppiata, ma ben presto ne vivrà i riflessi anche laggiù. E poi sempre laggiù ne conoscerà altre due, quella d'Etiopia e la seconda mondiale, a margine della quale i vincitori lo confineranno nell'«altra» Africa, in Kenya. Sarà contrabbandiere e trafficante di armi e hashish, armatore di una flottiglia pirata, coltivatore di perle per copertura e truffato per sventura, leader estraneo ai giochi di potere nella partita a scacchi delle potenze coloniali e «soldato» pronto a offrirsi all'unico uomo nel quale riconosceva il profilo di un'avventura nazionale sostenibile (si veda la lettera indirizzata a Mussolini nella pagina a fianco, uno fra i documenti inediti presenti nel libro di Solinas). Nemico del milieu diplomatico con cui qualche volta dovette pur scendere a patti, ma sempre con negli occhi l'orizzonte dal campo libero, immune al nazionalismo interno ed esterno, autenticamente anarchico non per scelta di disimpegno ma per inguaribile vocazione, le sue simpatie per l'Italia non gli impediranno di sottolineare il disinvolto cambio di alleanze nella Grande Guerra: «Ho potuto ammirare la gloria italiana consacrata da dodici grandi navi a vapore tedesche prigioniere nel porto \. Questi coraggiosi italiani, che non hanno mai rinculato di fronte al pericolo, perché sempre gli hanno saputo dare le spalle, questi coraggiosi italiani mostrano quei trofei e dicono, pieni di fierezza: “Siamo stati noi”. Sì. Quelle navi erano bloccate da undici mesi, rifugiate presso una nazione che, sulla sua parola, potevano considerare come amica, o almeno neutrale», scrive.

«Io non ho mai toccato una carta, frequentato un tavolo di roulette o un campo di corse, mi lasciano indifferente, ma ho l'animo del giocatore», dice. Anche sposare Armgart Freudenfeld, una tedesca con nome da valchiria, e nel '15, poi, fu un rischio. Che tuttavia omaggiò de Monfreid di una vincita forse insperata. Il ventennio che trascorsero insieme stando poco insieme, lei una Penelope che tesse la sua tela di attese e di timori, di rivendicazioni e di buoni consigli mai accolti, lui un Ulisse sempre sensibile al canto delle sirene di nuove sfide, diedero a Henry la solida base affettiva di cui aveva bisogno, dopo e prima la collezione di faccette nere... «Lei - scrive Solinas - si è innamorata proprio dell'Henry murato vivo dentro quella corazza che gli serve da difesa nei confronti del mondo». E ancora: «Sognatrice, anima d'artista e insieme donna pratica, Armgart impara l'arabo e il somalo, ha una buona mira, è un'ottima infermiera. Quando le attività di Henry si espanderanno, la centrale elettrica, la fabbrica di pasta, sarà lei stessa a farsene carico: tiene la contabilità, gestisce il personale, si occupa della clientela».

Morendo nel '38, la valchiria Armgart lascia il suo Sigfrido da solo a fronteggiare l'ultima partita sul campo (le altre saranno giocate a tavolino, mettendo nero su bianco decine e decine di storie scritte in prima persona, e diventando un'icona di un vivere inimitabile più che dannunziano). Per la seconda volta il mondo è di nuovo in fiamme. Henry de Monfreid perderà anche questa guerra, ma, fra un processo e l'altro, fra una galera e un campo di detenzione, fra errori e destini incrociati che s'ingarbugliano, potrà dire di aver vinto la battaglia dell'onore.

Un onore corsaro riconosciuto anche da chi va a velocità di crociera.

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