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Mladic sfida l'Aia perché vuol diventare un’icona

Il "boia di Srebrenica" si presenta a sorpresa in aula, ma solo per irridere il giudice e costringerlo a cacciarlo: un chiaro messaggio ai suoi sostenitori

Mladic sfida l'Aia perché 
vuol diventare un’icona

Il processo a Bin Laden è durato poche ore. Il tempo necessario ad impallinarlo, provarne l’identità e regalarlo ai pesci. Non è stato legalmente perfetto. Non ha convinto tutti. Non ha soddisfatto i desideri di chi lo voleva alla sbarra. Ma ha risolto il problema. In un colpo solo ha conseguito tre risultati. Ha inferto al capo terrorista la massima pena comminabile da un consesso umano. Ha regalato alle sue vittime una sensazione di giustizia. Ha impedito che prigionia, giudici e catene trasformassero il carnefice in vittima. Con Ratko Mladic andrà allo stesso modo? C’è da dubitarne. Un mese fa, al suo esordio davanti alla Corte Internazionale dell’Aia il macellaio di Srebrenica si guadagnò l’ammirazione di non pochi connazionali ripetendo di aver difeso la propria nazione.

Un mese dopo se ne conquista la compassione facendosi buttar fuori dall’aula dopo aver preteso di parlare per cinque minuti invece dei tre previsti. L’orgoglio patrio, il vittimismo personale, evocati ad arte dal «grande macellaio» non sono ovviamente casuali. Si rivolgono innanzitutto ai propri ostinati, incrollabili sostenitori. Non solo a quei tremila scesi in piazza dopo la sua cattura a Belgrado, ma a quella moltitudine più o meno silenziosa che dalla Serbia, alla Bosnia, fino alle più lontane terre di migrazione continua a considerarlo un paladino della patria, vittima di oscure trame internazionali architettate per rovesciargli addosso accuse ingiuste. Per quella Serbia - perennemente convinta d’essere la figlia reietta ed incompresa della storia - il Mladic «vecchio e malato», umiliato e non ascoltato dai giudici della Corte Internazionale rischia di diventare la nuova icona. Un’altra pericolosa valvola di sfogo per un popolo già vittima della propria eterna voglia d’auto compassione ed autoassoluzione. E poi c’è il resto del mondo. Un mondo sprofondato in un oblio lungo 16 anni. Un mondo che ha dimenticato una guerra da 120mila morti suggellata dalla follia crudele di Srebrenica, la città assediata, espugnata e massacrata.

Sedici anni son troppi anche per quegli orrori. Segnano il cuore e la mente dei familiari, ma diventano ricordi sbiaditi per il resto dell’umanità. Sedici anni dopo nell’aula dell’Aia il macellaio raggrinzito sfoggia lo stesso cappellino di allora. Irride le famiglie delle vittime con la stessa sprezzante disinvoltura con cui sputava il fumo del sigaro in faccia a Ton Karremans, il colonnello olandese passato alla storia per avergli consegnato Srebrenica e i suoi 7000 cadaveri. Eppure al termine dei 21 minuti impiegati dalla corte per leggere la forma abbreviata del capo d’imputazione contro Mladic tutto appare chiaro. In quell’aula linda, lontana dall’odore d’escrementi, terra, sudore e carne marcia della guerra la noia è più tragica dell’orrore.

L’intrinseco meccanismo auto celebrativo di una Corte Internazionale istituita per scrivere pagine di Storia anziché semplici atti di giustizia trasformerà la crudeltà del «macellaio» in una memoria sempre più lontana. Con Slobodan Milosevic mentore politico di Mladic andò esattamente così. Per tre anni la corte tentò di provare l’interminabile elenco di crimini attribuitigli per il periodo tra il 1991 e la fine della guerra del Kosovo. E alla fine la morte dell’imputato arrivò prima della giustizia. Stavolta il tentativo di dimostrare un’ipotesi di genocidio difficilmente provabile in termini legali affonderà nella banalità sprezzante di quel «difendevo la mia gente».

E anche stavolta giustizia non sarà fatta.

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