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Mondiali di Rugby, terzo posto per l'Australia Il Galles perde di 3 punti e vince per coraggio

I quattro minuti e mezzo più eroici della storia del rugby iniziano all'ottantesimo e ultimo minuto di Australia-Galles, finale per il terzo e quarto posto di questa edizione dei Mondiali. È la sera di venerdì scorso

Mondiali di Rugby, terzo posto per l'Australia 
Il Galles perde di 3 punti e vince per coraggio

I quattro minuti e mezzo più eroici della storia del rugby iniziano all'ottantesimo e ultimo minuto di Australia-Galles, finale per il terzo e quarto posto di questa edizione dei Mondiali. È la sera di venerdì scorso. Il Galles è sotto di dieci punti, e la partita è tecnicamente finita. Appena la palla uscirà dal campo, l'arbitro fischierà la fine, l'Australia porterà a casa la medaglia di bronzo, ai gallesi resterà solo il dolore della sconfitta e il rospo delle recriminazioni. I gallesi lo sanno. E sanno che quando stai sotto di dieci punti e la partita sta finendo non puoi fare assolutamente niente per ribaltare la situazione, perchè anche se vai in meta in mezzo ai pali e poi infili il calcio di trasformazione fanno solo sette punti, e hai perso lo stesso. E allora perchè non mollare, dare retta alle gambe che non si muovono più, buttare fuori la palla e smettere di soffrire? Ma il Galles non si arrende. E' una azione che sembra non finire mai, un batti e ribatti sulla linea dei ventidue metri australiani che sembrano un muro invalicabile. Basta che a un gallese caschi la palla in avanti, o che finisca in fuorigioco, perchè tutto finisca. Ma adesso i rossi non sbagliano più. Hanno sbagliato tanto, e spesso, per tutta la partita. Ma in questi quattro interminabili minuti non fanno più errori. E alla fine vanno a schiacciare in meta. Non serve a niente, non conta a niente. E' come una carica di cavalleria contro i carri armati, quelle cose che fai solo per poter dire un giorno, quando sarai vecchio e stanco, che non hai mollato.

Finisce così, 21-18, con i Wallabies che festeggiano e i gallesi che si guardano in faccia, in un angolo dello stadio di Auckland, con la consapevolezza di avere combattuto fino alla fine, in quei quattro minuti interminabili. Ma anche col rimpianto degli errori fatti negli ottanta minuti che li hanno preceduti, quando l'Australia è parsa a tutti battibile, e solo i calci sbagliati di James Hook, i falli senza senso della mischia gallese, le palle cadute, i passaggi sbagliati, hanno permesso ai Wallabies di prendere le distanze. Quade Cooper, contestato fuoriclasse australiano, si era rotto da solo quasi subito, mettendo male il piede d'appoggio. James O'Connor, il Balotelli del rugby australiano, varie gocce di talento disperse in un mare di indisciplina, faceva e non faceva. Il brigantino gallese è sembrato per lunghi tratti capace di sovrastare la corazzata australiana. Ma è mancata la calma, forse il cinismo. Però quei quattro minuti finali resteranno nella storia del mondo ovale.

Adesso manca solo la finale, quella vera, quella che una intera nazione aspetta come una liberazione da una (dicono proprio così) durata ventiquattro anni: domenica sera la Nuova Zelanda cerca contro la Francia il titolo mondiale che le manca dal 1987. Gli All Blacks stavolta sono convinti di farcela: anche le altre volte lo erano, eppure hanno perso. Stavolta, dicono, è la volta buona. E stanno già domandandosi quali misure saranno necessarie per limitare il traffico lunedì prossimo, quando il pullman con gli All Blacks in trionfo (hanno già persino fissato l’orario e il percorso, alle 14 da Queen street ad Aotea street) attraverserà le strade della città. Evidentemente da questa parte del pianeta la scaramanzia non sanno neanche cosa sia.

Meglio evitare, d’altronde, di immaginare l’impatto che una nuova sconfitta – e stavolta in patria, sul terreno amico dell’Eden’s Park – avrebbe sugli All Blacks e sull’intera nazione che gli sta dietro, su questi trecentomila metri quadri semideserti, dove su ogni casa e ogni auto sventola la bandiera nera con la felce che ha di fatto soppiantato la bandiera blu con l’Union Jack come emblema nazionale. Una intera nazione aspetta la vittoria sulla Francia domenica sera come la liberazione da un incubo. E per dare una idea della fiducia con cui l’intero paese guarda alla sfida, ecco le parole che sulla prima pagina del New Zealand Herald ha rivolto alla squadra sir Wilson Whineray, leggendario capitano della nazionale: .

È un eccesso di fiducia, di convinzione che si può ritorcere contro gli All Blacks? Nel rugby l’imponderabile a volte avviene, ma stavolta – come in nessuno dei mondiali precedenti – tra le due squadre che scenderanno in campo per la finale sembra esserci un divario tecnico e fisico che non può essere colmato solo dal cuore dei francesi o dai rimbalzi del pallone. Insomma, se non accadrà l'imponderabile, domenica sera vinceranno gli All Blacks. E finirà questo interminabile mondiale, lasciandosi dietro varie partite noiose, alcune mete da incorniciare, tre o quattro match di spessore innegabile. Ma anche la domanda se sia davvero indispensabile trasformare il contorno delle partite in una specie di baracconata, con i ballerini di capoeira sul prato mentre le squadre si scaldano, o le musiche da luna park che partono a tutto volume nelle pause del gioco, quando entrano i medici a rappezzare qualche ferita, e si dovrebbe stare lì, in silenzio, a guardare se il caduto si rialza oppure no, e a tirare il fiato insieme ai trenta ragazzi sul campo. Invece parte lo stereo a palla, le ciccione si scatenano in tribuna, insomma sembra di essere alle giostre la domenica pomeriggio.

La grandezza del rugby sopravvive anche a questo, ma se si potesse farne a meno sarebbe meglio.

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