Controcultura

Il mondo va alla deriva sul continente di rifiuti

Quel mostro nel Pacifico è più di un'emergenza ecologica. È la fine del nostro patto con la Natura

Il mondo va alla deriva sul continente di rifiuti

Fra le tante notizie tragiche, tragicomiche, comiche, lugubri, grottesche, patetiche, irritanti, deprimenti, incomprensibili e qualche volta perfino belle, che ci raggiungono ogni ora; e nella nostra quasi totale incapacità di distinguere, dentro quel corpo molle che chiamiamo realtà, le informazioni vere dalle fake news, ebbene: in tutto questo fluttuare qualcosa di solido, la terra su cui posiamo i piedi, il mare che attraversiamo o dove andiamo a rinfrescarci d'estate, il cielo percorso da nubi, uccelli, aerei e insetti, insomma la geografia, la geografia fisica potrebbe salvarci almeno un po', con le sue cifre, i suoi diametri, le sue altezze e le sue lunghezze inconfutabili.

Invece no. Gli atlanti vanno alla deriva come i continenti che descrivono, laghi grandi come mezza Italia scompaiono, fiumi lungo i quali si svilupparono civiltà stupefacenti si insabbiano, la calotta polare è in pericolo, nuove alghe e nuovi squali popoleranno i nostri mari.

Leggo che nell'Oceano Pacifico fluttua una sorta di continente non rilevato dalle carte. C'è chi dice che è grande cinque volte l'Italia, e non è fatto di ghiaccio ma di plastica. Tempeste e maree hanno agglutinato i nostri rifiuti non biodegradabili, abbandonati sulle spiagge, gettati nei fiumi, negli scarichi o direttamente dentro il mare o chissà cos'altro, e hanno formato un nuovo continente brutto e inospitale, che se ne sta come un corpo estraneo e feritore nella carne del pianeta, e il pianeta non sa come disfarsene.

Chi ha letto La metamorfosi di Kafka non può non ricordare, con raccapriccio, la mela che, gettata contro l'enorme, immondo insetto che fu Gregor Samsa, marcisce lentamente dentro la sua schiena molle e indifesa. Gregor non potrà liberarsene, e così quella mela contribuirà, lentamente, alla sua ignominiosa morte.

Quel continente grande cinque volte l'Italia soffoca l'Oceano, rende difficile il suo respiro. Il mare infatti non è una cosa morta con dentro tante cose vive - pesci, molluschi, crostacei, plancton, alghe -, è lui l'essere vivente, proprio come lo spazio di Einstein, che non è un vuoto dove fluttuano i corpi, ma esso stesso è il corpo.

I temi dell'ecologia, lo ammetto, non mi hanno mai appassionato, ma qui non c'entra tanto l'ecologia (una scienza allarmata già nel suo sorgere) ma un sapere antichissimo, che non si sa come sia svanito dalla nostra testa, e che i cavalli, come scrive Cormac McCarthy, conservano ancora.

Nel Settecento esistevano norme severissime per la costruzione dei cascinali, mentre le città conoscevano queste regole fin dai tempi antichi: non solo per l'effetto di qualche accordo politico o come esito di qualche rivolta, ma perché l'esistenza di una legge che legava uomini, animali, piante, fiumi, laghi e così via era percepita naturalmente - o forse sarebbe meglio dire che quella legge era, ed è, essa stessa la Natura.

I nostri avi costruivano templi e palazzi tenendo conto del movimento del sole e della luna, orientavano le loro abitazioni secondo l'alba e il tramonto, usavano il calore degli animali per riscaldare i loro figli - come ci ricorda il racconto della nascita di Gesù Cristo, non un'invenzione ma una pratica adottata fino alle soglie della nostra epoca. Non erano ecologisti, sapevano soltanto che l'esistenza è fatta così.

Ma di recente (due, tre generazioni), non si sa perché, questa legge suprema è sparita dalle nostre teste, e abbiamo cominciato a credere che fosse davvero possibile trattare male il mondo e poi trattare bene i nostri figli, che fosse possibile seccare i fiumi e gettare miliardi di tonnellate di plastica nel mare e poi promuovere iniziative socialmente utili. Ci si può riuscire individualmente ma riuscirci individualmente a che serve? Il mondo, si sa, ha bisogno di buone notizie per poter continuare a farsi gli affari propri.

Penso allora a quel continente di plastica, che è come una lama conficcata nel corpo sella Terra. Mesi fa andai a Venezia a vedere la folle mostra di Damien Hirst che raccontava la storia, completamente inventata, del recupero di un galeone pieno di ogni sorta di ricchezze affondato nei primi secoli dopo Cristo e recuperato ai nostri giorni. Un mecenate pazzo ha permesso all'artista inglese di realizzare questo suo pazzo sogno riempiendo due enormi spazi (la Punta della Dogana e Palazzo Grassi) con finti reperti di plastica, di bronzo e qualche volta perfino d'oro.

Allora mi divertii molto, ma oggi apprezzo meglio questa operazione ciclopica. Essa ci racconta la storia del mare, che abbraccia chi è morto e ne conserva i tesori. In quella mostra, il mare appariva dispensatore di bellezza, di ricchezza, di felicità, spesso di dolore ma sempre comunque di vita, quella vita che ha, come disse Giovanni Testori, il «vizio» di rinascere. L'immensa isola di plastica alla deriva nel Pacifico rivela il grido che covava sotto le bizzarrie di Hirst.

Non è una questione per ecologisti. Soltanto mi chiedo: quanto odio incosciente, quante tonnellate d'odio per noi stessi ha potuto indurci a trasformare questo pianeta in una discarica?

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