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Il soldato rapito è una bomba su Israele

Blitz kamikaze sequestra un militare e Tel Aviv ripiomba nell'incubo di 8 anni fa. Ma stavolta finirà peggio

Il peggior incubo di Israele è realtà. A materializzarlo ci pensa, ieri mattina, il kamikaze di Hamas saltato fuori da un tunnel ed esploso tra le gambe di tre militari israeliani mandati a cercar gallerie nella gruviera di Rafah, all'estremo sud della Striscia di Gaza. Nessuno può dire con certezza se in quel momento sia già scattato, come sostiene Israele, il cessate il fuoco di 72 ore concordato con Usa e Onu o se a quell'ora, come ripete Hamas, la tregua dovesse ancora iniziare. Di certo l'esplosione è parte di un piano ben congegnato. Un istante dopo dalla botola s'affacciano altri due militanti. Davanti hanno i resti del compagno bomba e i corpi di tre israeliani. Il capitano Benaya Sarel e il sergente Liel Gidoni sono sicuramente già morti. Il terzo, il tenente Hadar Goldin è probabilmente ferito, ma vivo. Questa, almeno, spiega perché i due miliziani decidano di portarselo nelle viscere della terra. La guerra a quel punto cambia volto. E non tanto perché il blitz fondamentalista cancella la tregua e fa scattare una rappresaglia israeliana costata la vita ad una quarantina di palestinesi, ma perché innesca un pericoloso dejavù . Un dejavù in cui Israele rivive non tanto la vicenda di Gilad Shalit, catturato da Hamas il 25 giugno 2006, ma piuttosto il ratto dei tre militari caduti in un imboscata di Hezbollah al confine con il Libano il 12 luglio 2006. Il rapimento Shalit non alterò mai i rapporti di forza tra Israele e Hamas, non mise mai in crisi l'opinione pubblica israeliana, ma contribuì soltanto a rafforzare le tesi di chi considerava Hamas un'organizzazione terroristica. Il colpo messo a segno ieri risveglia invece i fantasmi della guerra del Libano del 2006. Una guerra lanciata dopo aver subito un attacco ingiustificato, una guerra costata pesantissime perdite ad Hezbollah, ma trasformatasi, alla fine, in una «non vittoria» seguita dall'amara sconfessioni dei vertici militari e politici del Paese.

Oggi siamo allo stesso punto di otto anni fa. Dopo 25 giorni di guerra innescata dai lanci di missili di Hamas e dall'uccisione di tre ragazzini israeliani il governo Netanyahu rischia, per la prima volta, di dover giustificarsi con un'opinione pubblica interna che l'appoggiava incondizionatamente. Da oggi molti israeliani incominceranno a chiedersi perché il governo, pur conoscendo da mesi la pericolosità dei tunnel scavati da Hamas, non sia intervenuto prima. Domande che rischiano di rendere ancora più devastante il dolore e la rabbia per le oltre 60 vite di giovani militari perdute nello scontro con un organizzazione fondamentalista dimostratasi capace, nel frattempo, di affrontare Tsahal in campo aperto. Queste crepe sul fronte interno rischiano di rendere ancor più difficile il confronto a livello internazionale. Su quel fronte 25 giorni fa c'era un Hamas con le spalle al muro, ignorato se non osteggiato da gran parte delle opinioni pubbliche arabe e internazionali. Un Hamas abbandonato dagli alleati di Siria e Teheran per aver combattuto con i nemici di Bashar Assad, detestato da Egitto e Arabia Saudita per il suo ruolo di pedina dei Fratelli Musulmani foraggiata dal Qatar. Ma gli oltre 1500 morti palestinesi hanno risvegliato la solidarietà araba, ridato fiato ai nemici di Israele, resa più difficile la partita di chi sostiene le ragioni di una guerra combattuta non contro i palestinesi, ma contro una fazione fondamentalista.

E così oggi, 25 giorni dopo, Israele si ritrova a ricominciare tutti da capo. Ma per vincere stavolta deve riuscire veramente a distruggere Hamas spazzandolo via dalla Striscia di Gaza. Un'impresa quasi impossibile per una democrazia costretta a combattere con l'handicap di 1500 cadaveri palestinesi e di un soldato in mani nemiche. Un'impresa che però non prevede alternative. Perché una mezza vittoria simile a quella del 2006 innescherebbe un altro terremoto politico.

Regalando un insperato successo propagandistico ad Hamas.

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