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Così è fallito il modello assimilativo francese

Le nuove popolazioni subisconouna doppia alienazione che gli impedisce qualsiasi forma di radicamento: da una parte l’americanizzazione ha smantellato l’identità del Paese, dall’altra gli immigrati crescono in un milieu culturale trotskista che gli fa detestare la Francia profonda

Così è fallito il modello assimilativo francese

La Francia è un universalismo. Si può nascere fuori dai suoi confini ma amarla e difenderla più di qualsiasi nativo. A testimoniare questa tesi è la sua storia. In un libro intitolato Dizionario degli stranieri che hanno fatto la Francia pubblicato qualche anno fa vengono elencate tutte quelle personalità straniere nate nel territorio o fuori che in un modo o nell’altro hanno contribuito all’elevazione spirituale del genio francese. Tra i mille nomi figurano l’imperatore Napoleone Bonaparte (nato nella Corsica appena divenuta francese ma in un contesto famigliare italiano), l’architetto Le Corbusier (svizzero naturalizzato), l’artista Modigliani (nato a Livorno ma vissuto e morto a Parigi), il cantante Yves Montand (italiano naturalizzato), il comico Colucci, detto Coluche (italiano naturalizzato), il poeta Guillaume Apollinaire (di origini svizzere), l’attore Luis Mariano (spagnolo naturalizzato), lo scrittore Samuel Beckett (di origini irlandesi), i cantautori Serge Gainsbourg (di origini russe) e Charles Aznavour (di origini armene), e molti altri.

Proprio in continuità con questa tradizione si è sviluppato il modello assimilativo che si traduce nell’adattamento degli stranieri che vivono in Francia alla cultura della République. Secondo questa forma d’integrazione – che si differenzia dal multiculturalismo anglosassone e dal melting pot statunitense - i migranti devono mettere in secondo piano (non rinunciandovi, ma gerarchizzandole) le proprie origini, tradizioni, leggi e usanze e sposare i valori della Francia profonda. Con questa prospettiva dunque l’integrazione delle nuove popolazioni (di cultura cattolica, islamica o ebraica o di qualunque etnia) viene intesa come uguaglianza di trattamento, che si sostanzia nella totale neutralità e laicità dello Stato. L’unico interlocutore dello Stato francese diventa così il singolo individuo e di conseguenza i gruppi sociali (o comunitarismi) perdono qualunque tipo di valore sociale.

Se questo modello aveva funzionato fino ad un certo periodo, a partire dagli anni Settanta si è progressivamente smantellato fino ad assomigliare al comunitarismo anglosassone. La fotografia delle banlieues francesi in fiamme nel 2005 fa da cornice ad un problematica, quella dell’integrazione delle popolazione straniere, che da decenni assedia il Paese. Le immagini e i filmati che mostravano macchine bruciate, rastrellamenti, barricate, scontri estremamente violenti, non erano altro che la conseguenza di un percorso politico-urbanistico e demografico fallimentare avviato Oltralpe dopo la caduta di Charles De Gaulle (1969).

La Francia a differenza dell’Italia e di molti altri Paesi europei, per via del suo passato coloniale, ha conosciuto nella seconda metà del Novecento dei grandi flussi migratori provenienti dal Magreb, dall’Africa subsariana e dall’Asia orientale. La grande sostituzione etnica di cui parlava Renaud Camus - che in fondo ha sempre fatto comodo agli imprenditori poiché voleva dire mano d’opera a basso costo, basti ricordare i discorsi di Georges Marchais, allora segretario del Partito Comunista Francese, che nel 1981 diceva di voler bloccare l’immigrazione clandestina – fu di fatto appoggiata dall’alto con la legge del 1975 sul “ricongiungimento famigliare” (possibilità per gli immigrati di far venire i loro parenti fa fuori) fortemente voluta dal presidente di centro-destra Valery Giscard D’Estaing. Di fronte all’arrivo di queste nuove popolazioni la classe dirigente dell’epoca avviò un grande progetto residenziale e urbanistico a basso costo. Nate come luoghi di transito (residenze provvisorie) per gli immigrati, le banlieue (sobborghi) sono diventate dopo gli anni Ottanta la loro dimora fissa. Ad accelerare la costruzione di questi quartieri periferici fu il governo socialista del presidente François Mitterand (1981-1995), che vide in queste sacche urbanistiche abitate in maggioranza da stranieri (africani e arabi), la futura nuova base elettorale del centro-sinistra. Pochi anni dopo infatti, nel 1984, fu creato ad arte l’anti-razzismo istituzionale tramite associazioni come SOS racisme e Touche pas mon pote (nel loro direttivo non c’era nemmeno un figlio d’immigrato, ma solo bianchi francesi). Queste servirono a colpevolizzare un Front National presieduto da Jean Marie Le Pen che saliva nei sondaggi ma soprattutto, come sostiene anche il giornalista Eric Zemmour, a fabbricare il razzismo anti-francese ed il razzismo tout court, poiché garantivano il diritto alla differenza esaltando le origini di provenienza contro il modello assimilativo francese che invece vuole metterle in secondo piano.

In compenso nei sobborghi come in alcuni centri urbani è dilagata la figura del racaille o del banlieusard, giovane di quartiere connesso alla delinquenza, culturalmente sradicato, parassitario (una buona parte non lavora e vive di sole sovvenzioni statali), iper-consumatore, cresciuto nell’insegnamento trotskista dell’odio verso le tradizioni francesi, pura imitazione del gangster bling bling americano (culto delle armi e della prigione, spacciatore e consumatore di stupefacenti, uso di un linguaggio violento, apologeta della cultura ghettizzata). Così il multiculturalismo esaltato dai goscisti francesi non è altro che una forma di sradicamento che impone ad ogni immigrato due scelte opposte all’assimilazione: l’arruolamento nella Jihad globale o, come la grande maggioranza, l’ingresso nella civiltà dei consumi.

E che il più delle volte, non sono altro che le due facce della stessa medaglia.

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