Mondo

Delhi e il fascino disordinato della sua umanità

Nella capitale indiana traffico, mercati e mercanzie, gente, rumori, odori si sommano in un ambiente urbano nel quale vincono i grandi flussi e dove l'individuo combatte per la sua vita quotidiana

Delhi e il fascino disordinato della sua umanità

Sfrecciano auto a destra e a sinistra, sgommano, sfiorano, evitano, scartano. Auto vecchie, bucate dalla ruggine, gomme lisce dall'usura, e auto nuove, utilitarie che sono l'orgoglioso simbolo dell'ascesa sociale. Taxi neri, verdi e gialli, gialli e neri, tanti in stile inglese, e tanti “old Italy”, vecchie 1100 Fiat, auto da noi scomparse cinquant'anni fa e poi passate, con le loro linee di montaggio, al mercato indiano. Nel fiume di traffico s'insinuano motorini, scooter, con famiglie intere sedute a sandwich, papà che guida, mamma che chiude, e in mezzo uno, due, tre bambini, stretti tra i genitori perché non cadano. Qua e là biciclette e tricicli carichi di ogni mercanzia, cartoni, valigie, blocchi di ghiaccio, galline. E poi, il monumento nazionale: i tuc-tuc, gli scooter a carretto, a tre ruote, per passeggeri o merci, il più diffuso dei mezzi pubblici, agile, svelto, relativamente comodo, economico, pericolosissimo. Ogni tragitto, a Delhi, può essere l'ultimo. Il traffico procede a fiumi, camion, autobus, cisterne di acqua potabile, tre, quattro, cinque corsie per parte, tutte quelle che la strada permette, non c'è destra o sinistra che conti. Il rumore di fondo è assordante ma ci si fa l'abitudine e diventa una compagnia sonora costante e invisibile: stupirebbe il silenzio. Ogni tanto si assiste a un incidente: il miracolo è che siano così pochi, la sicurezza è affidata alla fortuna, a Budda, alla benevolenza degli antenati, all'astuzia. Non al codice della strada, che se anche esiste non gode di grande considerazione, non a cinture, non a caschi, che sono protezioni per poche minoranze consapevoli. Nessuno straniero si avventurerebbe a guidare in questa città caotica; del resto, un autista costa poco e solo lui si può destreggiare nel suo habitat, come un aborigeno nella foresta.

Di Delhi, dell'India, travolgono le quantità: di traffico, di gente, di bancarelle, di oggetti, di rumore, di cibo. Onde urbane che fluttuano. Mercati colossali, sacchi giganteschi di spezie, di riso, di tè, montagne di frutte e di verdure, esplosioni di colori imprevedibili. Mercati turistici carichi dei prodotti di artigiani lontani, abili e poveri, capaci di fabbricare gioie, giocattoli, souvenir, senza rendersi conto delle destinazioni finali che avranno. Lo stile di queste cose lusinga gli occidentali, offre tradizione a buon mercato e due braccialettini di osso risolvono pranzo e cena di una famiglia numerosa. Cataste immani di tessuti, vie intere di patchwork, copriletti, cuscini, tovaglie, manufatti d'arlecchino costruiti a riquadri cuciti tra loro e arricchiti di specchietti, perline, metalli e vetri, fantasie di donne amorevoli e intraprendenti. I commerci sono monocolturali: una via di tessuti, un'altra di oggetti in legno, un'altra, intera, di ceramiche, e via così, per tutta la città. Intorno alla grande moschea, un luogo tra i più vivaci di gente anche per la cultura araba che serpeggia nel tessuto urbano, sotto i portici e sui marciapiedi venditori di denti singoli e di dentiere complete, di arti artificiali, ma anche di immagini sacre, di bronzi d'arte, di statue in pietra. Bancarelle di pepe e di spezie, clienti di barbieri avvolti in lenzuola candide, e pure un pratico intento a ripulire meticolosamente con un uncinetto sottile le orecchie di un ragazzo otturate dal cerume: in mezzo alla strada, il luogo più naturale del mondo.

La città, dietro alla moschea, ansima di commerci. Cataste di paraurti, montagne di pneumatici, pesci vivi e morti, ceste di trombe di clackson, gabbie di galline sfarfallanti, case che sembrano sgomitare tra loro alla ricerca di spazio, appoggiate l'una all'altra come se ciascuna sostenesse non sé stessa ma l'intero quartiere, l'intera città. I torrenti di gente che cammina sono soggetti collettivi a sé: l'individuo non esiste, esiste solo la massa di individui, che si sposta con la lentezza e la complessità delle maree.

Sulle grate che dividono le strade e che proteggono i marciapiedi si celebra il rito del bucato: ogni appendiglio possibile è occupato da un indumento. La gente vive sulla strada – dorme, mangia, procrea – e sulla strada stende i panni. Anche l'anagrafe riconosce il diritto di occupare i cigli delle carreggiate: del resto, se parcheggiano le auto, perché non possono parcheggiarsi le famiglie? E sui registri pubblici, le persone sono abbinate al luogo dove, semplicemente, stanno: tra il secondo e il terzo albero a destra, prima della cancellata. Così li si registra, ecco l'indirizzo dei documenti. Se la casa è la strada, il bagno è la stazione. Sulle banchine che attendono i treni la gente si lava alle fontane, si asciuga con una pezza portata da casa (si fa per dire), spazzola i denti col dentifricio e si mette in posa per le foto. Qui tutti sono felici di farsi fotografare, non c'è storpio o miserabile che – contro la nostra sensibilità di europei - non ami mettersi in posa per la fotocamera di un turista, soddisfatto poi di vedere ritratti il suo moncherino, le sue piaghe o la sua faccia ritardata. Non è cinismo di turista: è la disarmante, amorevole ingenuità di costoro, più poveri di qualunque povero occidentale, che li spinge a chiedere esplicitamente, umilmente, arrendevolmente una fotografia, esprimendo poi gesti di gratitudine per quell'abbagliante evento storico.

Così come in tanti quadri fiamminghi nelle scene popolari si individua sempre qualcuno intento a svuotar vesciche o intestini contro un albero, presso un muro o in un cerchio forato nel ghiaccio, così in India a ben guardare ogni paesaggio è cosparso di silenziosi, discreti luoghi di evacuazioni, basta un cespuglio, dell'erba alta, un antro. La natura è natura, e ciò che è naturale è naturale. Perché scandalizzarsi? Nei campi delle periferie, specie di prima mattina, si scorgono le teste di corpi accovacciati, che poi si alzano e vanno, così, senza disagi e, forse, senza meta.

Ma tutti gli indiani – quelli che guidano, quelli che camminano, quelli che vendono, quelli che aspettano, quelli che sorridono da una carrozzella – hanno una forza superba nello sguardo: appuntito, intelligente, penetrante, vivace. Nello sguardo di un vecchio o di un bambino, in quegli occhi sempre neri e aguzzi, c'è la voracità dell'intelligenza e la serenità della storia, la rassegnazione della religione e l'amore per il prossimo. Ciascuno è sempre uno sguardo fiero, onesto, denso di sentimento e di saggezza.

Non lo si dimentica.

Commenti