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La guerra di Erdogan contro le Ong

Continuano gli arresti di attivisti per i diritti umani in Turchia. Questa volta a farne le spese è Amnesty International

La guerra di Erdogan contro le Ong

Non si ferma la guerra di Erdogan a qualsiasi organizzazione che possa essere anche lontanamente legata al tentativo di colpo di Stato dell’anno scorso. Questa settimana, a farne le spese, è stata Amnesty International, contro cui la polizia turca ha organizzato una vera e propria retata durante un incontro che si stava svolgendo in un hotel dell’isola di Buyukada, nel Mar di Marmara, e che aveva come argomento la sicurezza informatica. La polizia ha fatto irruzione nell’albergo ed ha arrestato dodici persone, fra cui, in particolare, spicca la direttrice di Amnesty International in Turchia: Idil Eser. Secondo il quotidiano Hurriyet, alle persone fermate durante la retata della polizia, non è stata concessa nemmeno la possibilità di contattare un avvocato e non è chiaro il motivo per cui sono stati portati di forza nella più vicina stazione di polizia. Il segretario generale di Amnesty International, Salil Shetty, ha affermato che ciò che è avvenuto nell’hotel di Buyukada è un “abuso di potere grottesco che rivela la situazione precaria affrontata dagli attivisti per i diritti umani nel paese.”

Non è la prima volta che Amnesty International viene indicata dalle forze di sicurezza turche come una delle organizzazioni legate al movimento di Fetullah Gülen, colui che il presidente Erdogan ha subito individuato quale mandante del fallito golpe del 15 luglio 2016. Il 6 giugno, esattamente un mese prima di questa seconda retata, a essere arrestato dalle forze di polizia di Ankara è stato Taner Kiliç, presidente di Amnesty International Turchia, e sempre per lo stesso motivo: presunti legami con la rete di Gülen e collaborazione con i golpisti. L’organizzazione internazionale si è difesa affermando, come ovvio, che non esistono alcuni legami fra A.I. e il fallito golpe e hanno detto che le accuse sono senza fondamento. L’arresto, tuttavia, è ancora in atto, e non sembra che la Turchia abbia intenzione di ritrattare.

Quello che è sempre più chiaro in queste settimane, è che l’accusa di collaborazione con il fallito colpo di Stato si stia trasformando in uno strumento sempre più evidente di “grandi purghe” all’interno del Paese. Erdogan non sta soltanto colpendo la presunta rete di Fetullah Gülen, ma sta ripulendo il Paese da qualunque opposizione che non sia quella interna al Parlamento. Ogni possibile legame con i gulenisti o una presunta avversione verso il regime di Erdogan, è etichettato come collaborazionismo con i “terroristi” e diventa lo strumento per sbattere le persone in carcere. I numeri di questo repulisti turco sono altissimi: da luglio dell’anno scorso, più di 150mila persone hanno perso il loro posto di lavoro e 50mila sono i detenuti condannati o in attesa di giudizio.

Le ONG, sia nazionali sia internazionali, sono state da subito fra le prime vittime delle retate di Erdogan. Accanto alle accuse di sostenere il colpo di Stato, la ragione principale di questa guerra alle organizzazioni non governative è da ricercare nei loro legami con l’estero: con Paesi che non hanno buoni rapporti con la nuova politica di Ankara. Non a caso, fra i detenuti di mercoledì scorso, insieme alla direttrice di Amnesty, figurano anche Ilknur Üstün, della Coalizione delle Donne, Günal Kursun e Veli Acu, di Human Rights Agenda. E Già nell’aprile del 2017, quattro ONG internazionali, fra cui un’italiana, sono state private dell’autorizzazione ad operare sul territorio turco. Il sospetto del governo turco è che queste organizzazioni operino formalmente per la difesa dei diritti umani ma poi sostengano in sostanza l’opposizione turca.

L’Unione Europea, intanto, ha deciso di muovere passi contro Erdogan e la sua nuova via autoritaria. L’Europarlamento ha approvato nei giorni scorsi una mozione in favore della sospensione del processo di adesione della Turchia all’Unione Europea - formalmente ancora in piedi - qualora Erdogan non decida di interrompere il processo di riforma costituzionale attivato dopo la risicata vittoria al referendum di quest’anno. La richiesta è ora al vaglio della Commissione Europea, che dovrà decidere entro tempi più o meno certi. Secondo il Parlamento Europeo, se Erdogan non cambia idea quantomeno sulla reintroduzione della pena di morte, il processo di adesione dovrà arenarsi del tutto, ma è evidente che ciò che muoverebbe a più miti consigli il governo di Ankara sono i soldi: uscire dal processo di adesione significa perdere miliardi di euro che Bruxelles garantisce ai Paesi che vogliono entrare nell’UE per modificare la propria situazione interna.

Bisognerà capire fino a che punto Erdogan sia disposto a perdere questi soldi, ma soprattutto fino a che punto l’Unione Europea possa fare a meno di una Turchia autoritaria alle sue porte, che blocchi, con la garanzia di miliardi di euro, il flusso di migranti.

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