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L'Indonesia al bivio: tra le avances Usa e il pericolo dell'Isis

Le autorità indonesiane rifiutano di supportare la lotta statunitense all'Isis in Iraq per non urtare fortemente l'ala radicale del mondo musulmano

L'Indonesia al bivio: tra le avances Usa e il pericolo dell'Isis

Si conclude il mese di Ramadan in tutto il mondo musulmano, ma contemporaneamente in molti Paesi a maggioranza islamica si alza l'asticella dell'allerta antiterrorismo. I festeggiamenti che segnano la fine del mese di digiuno e di preghiera, previsti quest'anno per il 17 e il 18 luglio, sono occasioni perfette per i terroristi che intendono spargere un po' di panico. L'Isis invita tutti i “fedeli” a compiere attacchi durante e dopo la fine del mese sacro, e le autorità indonesiane rispondono prontamente, predisponendo migliaia di poliziotti a presidio delle strade e dei luoghi simbolo, temendo nuove violenze. Qualcosa sfugge comunque al loro controllo: il 10 luglio in un centro commerciale della periferia di Jakarta, l'Alam Sutera Shopping Mall, situato nel distretto di Tangerang, esplode un ordigno artigianale. Nonostante il centro fosse affollato, la bomba non lede persone, provocando solo dei lievi danni alla struttura. Nessun morto e nessun ferito dunque, ma solo per fortuna.

Teme l'Indonesia, il più grande paese islamico al mondo, in cui l'87% della popolazione è musulmana. Teme per quei quasi nove milioni di turisti che ogni anno scelgono di visitarla. Teme, anche se gli esperti di terrorismo di matrice islamica assicurano che nel mirino della lotta jihadista non ci sono più gli stranieri e i locali frequentati dai turisti (come avvenne a Bali nel 2002), ma che gli obiettivi sensibili - oggi - sono tutti interni al Paese. Teme per la presenza radicata e diffusa di gruppi di estremisti islamici locali, e in particolare per quelle piccole fazioni che hanno cellule attive in tutto il Paese e che si ispirano alle imprese e ai proclami dello Stato Islamico. Teme perchè conosce il successo crescente che il marchio Isis sta ottenendo in tutto lo Stato: basti pensare che il 24 gennaio scorso, nella città di Sulawesi, a Makassar, una delle più grandi isole dell'arcipelago, è andato in scena uno dei più affollati cortei pro-Isis mai visti al mondo. Un atto palese di sottomissione e affiliazione al Califfo Abu Bakr Al Baghdadi, che ha preso forma come una lunga processione di motociclisti con caschi, maglie, cappellini e bandiere nere con scritto sopra: “Non c'è altro Dio all'infuori di Allah”. I ragazzi e i motociclisti gridano “Allah u akbar” e ancora “Dawla al Islam baqiyya”, “Lo Stato Islamico è qui per restare”. In sottofondo la musica usata nei video ufficiali dell'Isis. Teme l'Indonesia perché sono più di 500 i cittadini che secondo il governo di Jakarta sono partiti per andare a combattere in Siria e in Iraq nelle fila del Califfato nero e perchè questi cortei a favore dello jihad targato Is sono un fenomeno nuovo, di delicata gestione e che desta preoccupazione.

E i timori delle autorità indonesiane si proiettano sullo scenario internazionale con il rifiuto di supportare la lotta statunitense all'Isis in Iraq con l'invio di truppe di terra. Il ministro degli esteri indonesiano, Marty Natalegawa, il 29 giugno, ha spiegato che l'avvio di una simile operazione da parte del governo potrebbe urtare fortemente l'ala radicale del mondo musulmano del Paese e creare quindi rigurgiti di violenza pericolosi per i cittadini e per i turisti. Viene comunque rinnovato l'impegno da parte delle autorità a contrastare l'estremismo nel Paese, perché è noto che movimenti fondamentalisti e leader islamici locali hanno trovato ispirazione nelle gesta dei combattenti sunniti e sostengono la lotta per l'instaurazione del Califfato islamico in tutta l'Asia. Cellule estremiste e attive nel reclutamento sono impegnate tanto in Indonesia, quanto nella vicina Malesia.

Gli Stati Uniti hanno compreso le ragioni del rifiuto indonesiano e ritengono cruciale la lotta al terrorismo interna al Paese, anche se in Indonesia legislatori e magistrati sembrano essere i primi sostenitori dell'Islam radicale. A fine giugno la Corte Costituzionale dell'Indonesia ha votato la legalizzazione dei matrimoni con minorenni: a seguito di un parere espresso dal Mui. il consiglio degli ulema (dottori della legge islamica) indonesiani, si è deciso che una ragazza di 16 anni è considerata matura per il matrimonio. Il Mui premerebbe per un abbassamento dell'età matrimoniale alle ragazze che abbiano già avuto il primo ciclo mestruale e il limite di 16 anni imposto dalla Corte Costituzionale sarebbe già un compromesso. Gli attivisti per i diritti umani spiegano che in Indonesia il 39% dei matrimoni che si celebrano coinvolgono ragazze tra i 13 e i 17 anni, quindi la Corte non avrebbe fatto altro che avallare in parte una situazione di illegalità persistente.

E nella provincia di Aceh, dove da anni opera un movimento islamico indipendentista (il Gam) la parola del Mui vale più di quella dei giudici ufficiali. Ad Aceh la sharia è già legge: alle donne viene imposto un rigido codice vestiario (niente pantaloni né minigonne), ma anche il coprifuoco, istituito ufficialmente per proteggerle dalle molestie sessuali. Ultimamente è stato anche vietato di vendere cibo e bevande durante il mese di Ramadan, nonostante i non musulmani - indonesiani e stranieri - non siano pochi. Nove persone sono state già condannate alla fustigazione per aver violato questa legge.

E proprio dalla radicalissima provincia di Aceh si levano le grida spudorate degli ex militanti del Movimento di liberazione (Gam), che il 6 luglio hanno chiesto al governatore locale Zaini Abdullah di fornire loro sostegno finanziario per unirsi allo Stato Islamico in Siria. La richiesta è stata anche ufficializzata e inviata per iscritto al governatore che è un ex membro del Gam, vissuto in asilo politico in Svezia per 30 anni, e che ha risposto di non voler prestare troppa attenzione al problema perchè “se i combattenti vogliono unirsi all'Is non siamo noi a dovercene occupare. È un problema del governo centrale non nostro”. Il Governo indonesiano, da parte sua, non rilascia nessun commento e nomina il nuovo comandante dell'esercito e dei servizi segreti.

A noi giunge l'eco di questo silenzio, che speriamo operoso oltre che dignitoso, come campanello d'allarme di bacini di reclutamento jihadista molto più ampi di quelli che siamo abituati a pensare.

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