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L'ospedale dove si curano soldati e bimbi della Striscia

Medici arabi ed ebrei fianco a fianco. "Lavoriamo per tutti, e per la pace"

L'ospedale dove si curano soldati e bimbi della Striscia

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Tel Hashomera (Israele)Più che un ospedale, quello di Tel Hashomer, è un microcosmo di Israele: ultratecnologico, 2000 pazienti in una città di padiglioni.

Girando per le stanze si comprende perché in cambio di Gilad Shalit furono consegnati 1500 terroristi palestinesi. In Israele la vita non ha prezzo. Qui arrivano soldati feriti direttamente dal campo: ce n'è uno semisvenuto, 20enne pallido, bruno, in barella subito dopo l'operazione. Per arrivare alla sua stanza gli infermieri si fanno largo fra una folla diretta al terzo piano, dove sono ricoverati i soldati: ragazzine che portano panieri di biscotti, bambini con disegni, palloncini, anziane signore americane con «burekas» fatte in casa. Il ragazzo non capisce, non guarda, chissà quale granata, quale scheggia l'ha colpito, ha gli occhi rovesciati dell'anestesia. Lo seguono la madre, col padre che la tiene per mano.

Un altro padre di guardia alla stanza del suo Roy, 21 anni, racconta: «È stato ferito di mattina, ha ricordato il numero della mamma, ci hanno fatto sentire la sua voce, poi ci hanno detto che aveva la mano e parte del braccio spappolato. È svenuto, 4 ore sotto i ferri. Noi vogliamo la pace, facciamo di tutto per risparmiare la vita della gente a Gaza, ma che ci possiamo fare se una banda cerca di ucciderci coi missili, usa le loro case per nascondere le gallerie, le armi, i terroristi?». Natan Mor, 20 anni, ora può essere trasportato dalla mamma sulla sedia a rotelle nel corridoio, lei sorride anche se il figlio è fasciato su gambe e braccia.

A una persona di cultura europea fa impressione questo mondo di giovani, studenti, lavoratori, in cui la motivazione verso la difesa del proprio Paese è uguale a destra e a sinistra. «Siamo molto uniti, persino medici israeliani e arabi», dice il direttore generale dell'ospedale, Ari Shamis. «Questo è l'unico ospedale, sui quattro del centro, in cui i soldati vengono trasportati dal campo. Il tempo è fattore essenziale, da quando vengono soccorsi a quando scendono con l'elicottero. E noi siamo già pronti con trasfusioni, operazioni, assistenza ai genitori. Quando li chiamiamo cerchiamo di far sentire loro la voce del ragazzo, anche dalla camera operatoria. Abbiamo avuto 50 su 123 soldati feriti in guerra, ora qui ne abbiamo 29. No -sorride trionfante- non abbiamo perdite per ora.

Stiamo curando con successo anche una famiglia palestinese evacuata da Gaza. Per noi non c'è nessuna differenza: ricoveriamo chi arriva e lo curiamo al massimo livello». Medici palestinesi, malati palestinesi, bambini di Gaza sono la prassi dell'ospedale: saliamo col professor Yoram Neumann al terzo piano, reparto oncologico pediatrico. In ogni stanza, in cui l'aria ha il filtro «luminar airflow», isolato e sterilizzato - «più che negli ospedali americani», dice Nemann - è ricoverato un bambino di Gaza insieme ai familiari che se ne occupano. Su 22 bimbi, 18 vengono dalla Striscia. Le mamme, col velo, siedono quiete. C'è chi fa la chemio, chi ha bisogno del trapianto di midollo, chi ha terminato la cura ma resta perché a casa non hanno gli strumenti necessari.

In inglese la mamma Nevin mi parla di Aid, di un anno: «Sono qui da 4 mesi, penso che ci dovrò restare ancora 3». E il marito? «È a Gaza, molto pericoloso, sta bene, telefono, mi manca». Nevin dice che vuole la pace, «shalom» ripete. Non vuole dare il nome completo, Hamas può vendicarsi.

Il padre di Mordechai, 22 anni, anche lui è stato avvertito delle ferite dalla voce del figlio prima che affrontasse cinque operazioni a viso, braccia, gambe. Non c'è ansia o angoscia nello sporgersi sull'orlo della morte alla sua età. Bisogna salvare il Paese.

Dice il professor Zeev Rostein, presidente dell'ospedale: «I soldati sono oggi meglio protetti sulla testa e sul petto, le ferite sono soprattutto agli arti. Li curiamo col massimo della tecnologia. Senza differenze coi palestinesi.

È un investimento per la pace: pensi che choc, per una famiglia di Gaza, vedere che abbiamo con loro lo stesso rapporto che con i nostri malati, dopo tutto quello che gli hanno messo in testa».

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