Mondo

Un ragazzo di 17 anni guida la ribellione di Hong Kong alla Cina

Joshua Wong ha dalla sua parte la maggioranza dei concittadini. Deve sfidare il potere comunista e i miliardari che ci fanno affari

Manifestazione studentesca a Hong Kong
Manifestazione studentesca a Hong Kong

Ci vuole l'incoscienza della gioventù per mettersi contemporaneamente contro il regime comunista cinese e il cartello dei miliardari che con quel regime fanno affari e si arricchiscono. Non è un caso insomma che il leader della massiccia (e dalle nostre parti allegramente ignorata, non essendo orientata dalla parte «giusta») protesta studentesca di Hong Kong sia un ragazzo di soli 17 anni, Joshua Wong.

Un tipo idealista e coraggioso, che non ha ancora l'età per rassegnarsi a scendere a compromessi con chi pretende di dettarti quello che puoi fare e quello che puoi pensare. Uno che può vantarsi di essere riuscito due anni fa, quando aveva solo 15 anni, a imporre grazie alla sua leadership una marcia indietro al governo di Pechino, che aveva cercato di introdurre in tutte le scuole elementari e medie di Hong Kong la cosiddetta «educazione patriottica», un insieme di insegnamenti che miravano a cancellare la specificità della ex colonia britannica (che è garantita da un trattato firmato con Londra) e a trasmettere elementi di propaganda comunista e nazionalista cinese.

Questa volta Wong si è posto un obiettivo ancor più ambizioso: usare l'arma dello sciopero studentesco per convincere il colosso cinese a mantenere le promesse sul libero suffragio universale a Hong Kong. Un'impresa che in partenza appare impossibile: il partito comunista cinese sa benissimo che uscirebbe sconfitto in una libera competizione elettorale in un territorio dove l'informazione non è sottoposta a censura. E siccome il potere comunista si fonda sulla pretesa del sostegno popolare, questa non può e non deve essere smentita nei fatti. Ma il capo degli studenti non si dà per vinto in anticipo, e con lui Alex Chow, leader universitario che lunedì ha parlato chiaro ai 13mila studenti che si sono radunati nel campus dell'Università di Hong Kong: «Non ci facciamo più illusioni sul governo, ma avremo fede solo in noi stessi. Siamo pronti a pagare il prezzo della democrazia».

Lo sciopero degli studenti è il primo a Hong Kong dagli anni Sessanta, ma quelli erano altri tempi, quelli della sovranità britannica sulla colonia, finita per sempre nel 1997 con quello che Pechino definisce «ritorno alla madrepatria». Firmando il trattato col governo di Londra, l'allora leader cinese Jiang Zemin s'impegnò a garantire per 50 anni un «sistema speciale» per Hong Kong, all'interno del quale le libertà democratiche sarebbero state rispettate. Di fatto, Pechino ha mantenuto le promesse solo in parte e ha cercato di accrescere sottilmente il suo controllo sul potere politico locale attraverso figure di sua fiducia e grazie a un sistema elettorale «misto», ossia solo in parte scelto dai cittadini.

L'insofferenza degli abitanti di Hong Kong per questa forma di colonialismo mascherato sta però giungendo a un punto di non ritorno. La ribellione degli studenti, sostenuta da gran parte dei loro professori, è solo la punta dell'iceberg: i sondaggi rilevano come solo il 28 per cento della popolazione locale sia disposto ad accettare la proposta di Pechino di far scegliere per la candidatura a Capo dell'Esecutivo di Hong Kong (la più importante carica politica dell'ex colonia) «fra due o tre nomi» a loro volta decisi da un Comitato elettorale di 1400 persone a sua volta indicato dalla Cina. A questa parodia democratica - che il leader storico per la democrazia a Hong Kong, Martin Lee, definisce «il diritto di scegliere fra un mango, una banana e un ananas marci» - si oppone il 53 per cento degli intervistati.

C'è però un problema non da poco. Tra quanti chiedono agli studenti di desistere dalla settimana di protesta già annunciata c'è l'elite dei ricchi uomini d'affari di Hong Kong, ben consapevoli che la loro ricchezza dipende dai compromessi con il capo comunista di Pechino, Xi Jinping. Wong e i suoi seguaci intendono sfidarli con Occupy Central, un'iniziativa che prevede sit-in nel quartiere degli affari per chiedere democrazia. La polizia e un gruppo pro-Pechino, «anti-Occupy Central», hanno già promesso che glielo impediranno.

Hong Kong 2014 non è Tien An Men 1989, ma un esito violento dello scontro è fin troppo probabile.

Commenti