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La teoria del Washington Post: "Così migliaia di migranti salveranno l'Europa"

La teoria del Washington Post: a differenza di Ungheria e Macedonia, i Paesi dell’Unione devono fare come la Serbia: trasformare l’accoglienza in ripopolamento

La teoria del Washington Post: "Così migliaia di migranti salveranno l'Europa"

Per conoscere il destino dell’Europa bisogna leggere le omelie dei cosiddetti columnist dei maggiori quotidiani statunitensi. Sono loro a dettare l’agenda dei governi. La settimana scorsa in un articolo pubblicato sul Washington Post e intitolato “Come decine di migliaia di migranti potrebbero salvare l’Europa” il giornalista Ishaan Tharoor, figlio di Shashi Tharoor ex membro delle Nazioni Unite e attualmente eletto al Parlamento indiano nonché fratello di Kanishk Tharoor ex direttrice del think tank Open Democracy che ha tra i suoi editorialisti di punta George Soros, ha scritto nero su bianco che i flussi sono una risorsa se orientati al ripopolamento di alcune aree del Vecchio Continente. L’esempio europeo elogiato da Tharoor è la Serbia, Paese che rientra nella rotta orientale dei Balcani dei migranti, di cui molti rifugiati in fuga dalla guerra civile siriana, che a differenza dell’Ungheria e della Macedonia ha consentito a centinaia di persone di stabilirsi nei villaggi sottopopolati per compensare un basso tasso di natalità così come l’emigrazione di giovani lavoratori verso nazioni più prospere (secondo la Reuters la popolazione serba, dal 2002, è scesa di oltre il 5 per cento). Se dagli anni Settanta l’ideologia neomaltusiana partorita Oltreoceano e, sposata sia dagli abortisti che dalle femministe, ha scatenato un calo verticale delle nascite facendo precipitare l’Europa in una crisi demografica senza precedenti, ora gli Stati Uniti hanno interesse ad alimentare il fenomeno dell’immigrazione per mantenere l’Europa in uno stato di caos permanente che la costringerebbe a stare agganciata alle capacità militari della Nato.

Pertanto a differenza della parte occidentale che ha già visto negli ultimi decenni un’immigrazione massiccia mutando antropologicamente e sociologicamente i propri centri urbani, sempre più simili alle multietniche città americane, quella orientale ha conservato in maggior misura la propria identità e, guarda caso, proprio quell’Europa dell’Est ha rifiutato direttive di Bruxelles su temi etici e sociali come l’identità di genere e l’accoglienza dei migranti. Le ragioni sono da cercare nella storia. L’isolamento che quest’area ha vissuto negli anni della Guerra Fredda ha fatto si che rimanesse immune all’evoluzione o se vogliamo all’involuzione della società capitalistica occidentale. Questo spiega anche in parte il forte attaccamento alle proprie radici della Russia di Vladimir Putin e di altri Paesi anche all’interno dell’area Schengen, come l’Ungheria di Viktor Orban che aveva avviato prima dell’estate la costruzione di un muro ai confini meridionali affinché tutelasse il governo di Budapest dal caos che sta travolgendo la limitrofa Serbia elogiata dal giornalista statunitense Ishaan Tharoor. Non stupisce tanto il fatto che l’omelia immigrazionista arrivi dal Washington Post. Come quasi tutti i giornali della galassia “liberal” negli Stati Uniti, a cominciare dal New York Times, anche il quotidiano acquistato recentemente dal fondatore di Amazon Jeffrey Bezos è stato protagonista negli ultimi anni di un inesorabile trasformazione della propria linea editoriale. Da baluardo del progressismo a stelle e strisce, questa testata è diventata alfiere del più becero neoconservatorismo. In fondo il quadro è più che logico: dopo aver sostenuto prepotentemente le guerre in Afghanistan e in Iraq, e più recentemente invitato l’amministrazione Obama a prendere iniziative più radicali in Siria (contro Bashar al Assad mica contro l’Isis), adesso i suoi editorialisti ritengono che l’immigrazione può diventare una risorsa per l’Europa se orientata al ripopolamento. Tanto le guerre americane le pagano gli europei.

Si sa, ogni uomo che scappa da povertà o guerra attraverserà il Mar Mediterraneo mica l’Oceano Atlantico.

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